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40 anni senza John. Ma il mito di Lennon è più vivo che mai

Furono cinque, i colpi di pistola sparati da Mark David Chapman che misero fine alla vita di John.

Era la sera dell’8 dicembre 1980 e, da allora, sono trascorsi ben 40 anni. Quella sera David Bowie si stava esibendo in un teatro di Broadway con The Elephant Man e rimase perplesso quando si accorse che due posti in prima fila erano rimasti vuoti. Quei posti, Bowie li aveva riservati ai suoi amici John e Yoko, che quella sera avrebbero dovuto essere lì a teatro per lui. Solo quando trapelò la notizia della scomparsa di John, Bowie capì.

“I just shot John Lennon” furono le gelide parole di Chapman alla polizia, quel lontano 8 dicembre 1980. Ma dopo quattro decenni possiamo senza dubbio affermare che il mito di Lennon non è mai morto, anzi è più vivo che mai.

La notizia della morte suscitò dolore e commozione tra i fan di tutto il mondo, al punto che anche in Italia si decise di celebrare l’artista con una catena musicale via etere, attraverso l’ascolto di Imagine in tutte le radio.

Musicista di talento, militante e pacifista. Come spiegare John Lennon alle nuove generazioni? Probabilmente il modo più bello e immediato sarebbe quello di far ascoltare la sua musica ai bambini, perché non esiste modo migliore di comprendere John, se non attraverso la sua eredità.

Nel 1997 ero anche io una bambina e non conoscevo l’ex beatle, se non per sentito dire. Ma ricordo quella mattina di dicembre, poco prima di Natale, quando durante la lezione di inglese il maestro ci fece ascoltare Happy Xmas (War is Over). Fu subito amore.

Le parole dei testi di John Lennon hanno sfidato le leggi del tempo e dello spazio e sono arrivate intatte fino ai nostri giorni, con quella che è la potenza disarmante della semplicità. Ascoltare oggi Imagine (che è diventato il testamento musicale di John) significa ancora una volta immaginare un mondo diverso da quello in cui siamo stati catapultati, e sognare di azzerare quei muri e quelle distanze, che ci tengono prigionieri di schemi mentali in grado di alimentare soltanto egoismo e disuguaglianza.

Chissà come sarebbe stato se John Lennon fosse ancora vivo. Chissà quante cose avrebbe avuto ancora da dire, e chissà quali altre perle musicali avremmo avuto il piacere di ascoltare. E’ vero, l’8 dicembre 1980 è scomparso un uomo, ma quel giorno di dicembre ha sicuramente contribuito alla nascita di un mito immortale.

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Un treno per il 1963: recensione del concerto dei Bootleg Beatles

E’ tipico di Marika riuscire a provare nostalgia per epoche mai vissute. Quando nel 2018 sono stata a Liverpool e ho messo piede al Cavern Club, ho desiderato intensamente di essere una diciottenne del 1963 che ballava al ritmo del primo album dei Beatles (al punto di tatuarmelo sul braccio, ma questa è un’altra storia).

Un anno fa i Bootleg Beatles annunciavano uno show proprio nella città dove abitavo, e io pensai che fosse arrivato il mio momento. In mancanza di una macchina del tempo, vedere i Bootleg Beatles live è il modo più semplice per tornare agli swinging sixties. Ho acquistato il mio biglietto per lo show del 23 febbraio al Tivoli Vredenburg, a Utrecht, parte di un mini tour dei Paesi Bassi di 6 tappe partito a Groningen il 20 febbraio.

Dal loro esordio nel marzo del 1980, i Bootleg Beatles si sono esibiti più di 4000 volte, diventando una delle band tributo dei Fab 4 più importanti al mondo. Nella prima metà degli anni ‘80 completano un tour di ben 60 date nell’ex Unione Sovietica e nel 1984 vengono invitati negli Stati Uniti per celebrare il ventesimo anniversario dal tour  statunitense dei Beatles. A seguire un tour di 10 date nel Regno Unito nelle stesse venues in cui suonarono i Beatles durante il tour del 1965. L’ascesa continua negli anni novanta, quando vengono invitati dagli Oasis ad aprire alcuni dei loro concerti. Comincia per i Bootleg Beatles un periodo di collaborazioni con volti noti della musica inglese e internazionale (Rod Steward, David Bowie e Bon Jovi, solo per citarne qualcuno). I Bootleg Beatles vantano anche un’esibizione a Buckingham Palace in occasione del cinquantesimo anniversario dall’incoronazione della regina Elisabetta II, nel 2002.

La formazione odierna vede Tyson Kelly nei panni di John Lennon, Steve White in quelli di Paul McCartney, Stephen Hill in quelli di George Harrison e Gordon Elsmore in quelli di Ringo Starr.

Ma veniamo allo show, al concerto, al musical, al documentario (insomma, non ho ancora ben capito come chiamarlo). Le luci si spengono e ad aprire lo show sono le urla delle ragazzine degli anni sessanta in preda alla Beatlemania. Si accende lo schermo con un collage di immagini di puro delirio e nel caos si sentono le prime note di Please, please me. Sul palco appaiono 4 ragazzi in dolcevita nero, stivaletti laccati neri e pantaloni a sigaretta, incredibilmente somiglianti ai Beatles nei tratti e nelle movenze (tutti a parte Paul, tra i quattro il meno simile). E’ la parte dello show dedicata agli anni che vanno dal 1963 al 1965, “Beatlemania conquers the world” (e le canzoni di quel periodo, rimanga tra noi, sono il mio fetish). Le esecuzioni (perfette) di She loves you, I want to hold your hand e l’acustica Yesterday mi hanno fatta letteralmente impazzire. 

La seconda parte dello show, “The end of touring and becoming a studio band”, ripercorre gli anni 1965 e 1966. I Bootleg Beatles indossano giacche beige, le stesse dell’esibizione allo Shea Stadium del 15 Agosto 1965. Anche l’entusiasmo in sala deve essere lo stesso dell’agosto del 1965, mentre la band esegue impeccabilmente successi come Twist and Shout, Can’t buy me love e Day Tripper, prima di fermarsi per l’intervallo. E’ durante questa parte di show che mi accorgo della magia che sta accadendo. Nel pubblico ci sono principalmente settantenni, alcuni con le stampelle, altri con il deambulatore, altri sorretti dal braccio dei propri figli. Ma tutti, dal primo all’ultimo, si alzano in piedi per ballare, anche solo per una canzone. E’ una boccata di aria fresca vederli rivivere la propria giovinezza.

I Bootleg Beatles saltano la parte dello show dedicata alla loro “esplosione psichedelica”, parte normalmente inserita negli show. E’ un peccato, perchè avrei voluto vedere i costumi di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Facciamo un salto temporale che ci porta negli anni che vanno dal 1968 al 1970, “The White Album, Abbey Road and the rooftop concert”. Stavolta i Bootleg Beatles sono vestiti esattamente come sulla copertina di Abbey Road. In questa sezione vengono proiettate le immagini di alcuni degli avvenimenti storici e politici più importanti della seconda metà degli anni sessanta, avvenimenti nei quali la musica dei Beatles si intromette e si intreccia, soprattutto in questa fase della loro carriera. Lo show diventa, a questo punto, anche un po’ un documentario. Il talento di Tyson, alias John, emerge prepotentemente in Come Together, mentre Stephen, alias George, è semplicemente meraviglioso nella mia canzone preferita, While my guitar gently weeps, e mi regala una di quelle esibizioni che non si tolgono più dal cuore.

Chiude lo show la splendida Hey Jude – e qui mi rendo conto che la magia non riguarda solo il pubblico di settantenni. Qualche sedia più in là c’è un bambino, con la mamma e il papà, avrà sette o otto anni. Canta Hey Jude con lo sguardo incantato, mi ricorda che esiste certa musica che fotte il piano temporale, le generazioni, i gusti, le mode, certa musica che smetterà di essere suonata, cantata, amata solo quando tutto questo scomparirà – e nemmeno allora sono certa che succederà. Esiste certa musica che in fondo è la cosa più vicina all’idea di eternità e la musica dei Beatles ne fa parte.

Vi consiglio di tenere d’occhio i Bootleg Beatles se come me avete nostalgia degli anni sessanta – che voi li abbiate vissuti o meno. Qui trovate le date del loro tour, in continuo aggiornamento.

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