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RISING SOUNDS: Il piano, il beat e una vita in movimento, scopriamo chi è Vittorio Copioso

Il numero di Rising Sounds di questo mese è dedicato a Vittorio Copioso. Classe ’92, è un giovane pianista, produttore e compositore campano. Attualmente, insegnante di musica e potenziamento musicale per la scuola secondaria di primo grado. Alle spalle un percorso di studi in conservatorio e doppia specializzazione al biennio, e oggi ci parla dei suoi progetti futuri, tra EP, videoclip e trasferimenti in tutt’Italia.

Ciao Vittorio, la prima domanda è: Come stai? ‘Na bomba (Ridiamo) Si lavora, si suona e si cazzeggia. E si fanno videoclip in casa.

Dov’è che stai trascorrendo questo nuovo semi-lockdown? Precisamente, adesso mi trovo a Borgo Tossignano, nella provincia di Bologna.

Com’è iniziata la tua storia d’amore con le note musicali? È iniziata quando avevo sette anni e suonavo la tastiera. È iniziata con le basi musicali, e le canzoncine. Poi sono cresciuto, e mi sono avvicinato allo studio del pianoforte classico con il maestro Martino Nacca. È stato grazie a lui che ho scoperto il mondo del prog rock e, più in generale, del pianismo moderno. La mia prima formazione è proseguita poi nell’Accademia Arturo Toscanini di San Nicola La Strada, nella quale ho lasciato un vero e proprio pezzo di cuore, e ho conosciuto tante persone meravigliose che porto sempre nel cuore. È stata una vera e propria storia d’amore, la mia con la musica. Una storia d’amore e odio.

È interessante questa dicotomia. Perché parli d’amore e odio?

Perché ho provato tanto, tantissimo amore per una cosa che da parte sua mi ha anche fatto tanto soffrire, e spesso ho pensato di doverla abbandonare. Con la musica ho litigato più e più volte, e ho pensato di doverla abbandonare.

Come si descriverebbe “Vittorio Copioso – Il musicista”?

Lo sai, questa domanda è proprio difficile. La vera risposta è: non lo so. Perché non mi considero per davvero un musicista, almeno adesso. Non vado più a suonare in giro, ho messo da parte la vita “del live”. Anche se mi sto divertendo con le mie produzioni musicali, quelle di altri artisti. Mi sono appassionato alla composizione di musica da film. Insomma, la vita di musicista è molto, molto legata alla vita personale. Sono una persona semplice, cerco di essere modesto, allegro, e porto ciò che sono in quello che faccio. Non riesco a scindere la persona dal musicista, e viceversa.

Ultimamente hai pubblicato diversi videoclip. Ci sono nuovi progetti all’orizzonte?

Niente di definitivo, a dire il vero. Mi sto divertendo a scrivere altra musica, coinvolgendo amici musicisti sparsi in giro per l’Italia. Quando avrò raccolto un buon numero di materiali che mi soddisfino sul serio, produrrò un EP. L’ennesimo, della mia carriera. (Ridiamo, poi proseguono le domande).

Quanti EP hai pubblicato, fino ad ora?

3 EP ufficiali e innumerevoli e randomici singoli.

Negli scorsi anni hai preso parte a diversi progetti in trio, in duo, da solista. C’è una di queste tipologie di formazione che preferisci?

No! (Ridiamo) Nessuna di queste tre è la mia preferita. La mia preferita è quella che avevo con i miei amici, in una band chiamata Garfield Funky Company, eravamo un collettivo musicale e suonavamo molti brani pieni di groove. Mi piace quando si è in tanti, sul palco, a suonare. E tutte le formazioni, in generale, mi sono piaciute perché ho condiviso musica con persone care. Ho suonato con Roberta Cacciapuoti nel duo Croce e Delizia, per il quale ho un amore infinito. Da poco abbiamo pubblicato una nostra versione del brano Passione con un video montato da me. E poi, beh, in trio ho avuto tante soddisfazioni. E per quanto riguarda il suonare da solo, vivo da solo, sto spesso da solo, qualcosa dovrò pur fare per non impazzire!

Hai collaborato con diversi artisti, nel corso degli anni. Ci racconti le esperienze che hai preferito?

Innanzitutto quella col mio trio, il Vittorio Copioso Trio, di base a Perugia, col quale abbiamo suonato e riarrangiato brani scritti da me in chiave hip-hop e jazz. Ci siamo divertiti con la libera improvvisazione, le cose erano spesso estemporanee. E, sempre a Perugia, ho suonato con il Cobres Trio. Eravamo la band resident in un locale in cui facevamo jam sessions. Ho scritto la sigla di Radio Pizza Olanda ed è stato estremamente divertente! Un’altra esperienza è stata quella di suonare con Stefano Di Battista, per un evento molto bello. Abbiamo suonato su una zattera in mezzo al lago. In tutto eravamo 12 musicisti, e come special guest Stefano Di Battista ha suonato qualche pezzo con noi, è stato veramente un onore. Inoltre, lo scorso luglio, ho partecipato ad un festival bellissimo chiamato “Il cantiere”. Abbiamo suonato ad Arezzo, e ho musicato una scena di un film. È stata una grandissima e bellissima esperienza, in collaborazione col conservatorio di Rovigo. Si tratta di un festival di lunga data, sono 45 anni che si ripete, e prendervi parte è stato veramente indimenticabile.

Ce n’è stata qualcuna che invece avresti evitato, e magari, tornando indietro non ripeteresti?

No, in realtà no. Ogni esperienza serve. Magari, qualcosa la modificherei, ma fondamentalmente rifarei tutto.

Com’è la tua vita tra composizione ed insegnamento?

Adesso, l’insegnamento della musica e del potenziamento musicale nella scuola secondaria di primo grado è diventato il mio lavoro principale. Mentre la composizione è il mio momento di sperimentazione, divertimento. Mando materiale a persone, amici.

Da qualche anno, sappiamo che hai fondato una tua etichetta indipendente, la Beat House Label. Ce ne vuoi parlare?

Trovare un’etichetta al giorno d’oggi è una cosa veramente complessa. Quando vuoi pubblicare qualcosa, qualcosa di tuo, vai incontro a tantissime problematiche. Quindi Beat House è il mio ponte personale tramite cui arrivare a tutte le piattaforme. Non si tratta solo di un’etichetta privata, usata solo da me, ma tramite Beat House lavoro nel mondo della post-produzione per altri artisti, per esempio la Drama SMP, composta da me e Federico Pedini, tramite cui scriviamo musica per film, e curiamo missaggio ed editing del materiale da noi prodotto. Quindi anche la sincronizzazione sotto le immagini, e via dicendo.

Quindi prendete in considerazione anche altri artisti, oltre alla vostra cerchia strettamente intima?

Sì, tutti quelli che hanno bisogno di missaggio, mastering, produzione musicale. Si predilige il mondo “groovy”, musica rap, hip-hop, che abbia sapori afro-cubani. Per ora è un’etichetta piccola, ma dà tante soddisfazioni. Io la chiamo “etichetta itinerante”, perché si sposta insieme a me. Mi piacerebbe, anche per il futuro, mantenere tutto più o meno online.

Che cosa bolle in pentola per i prossimi mesi?

Presto, spero, pubblicherò la mia tesi. Stiamo aspettando il momento giusto per pubblicarla, ed è la cosa più importante che aspetto. Per il resto, sono aperto a quello che la vita mi metterà davanti. Non mi spaventano i cambiamenti!

Vittorio, la nostra intervista è finita. Grazie per esserti raccontato, e grazie per aver condiviso con noi la tua musica e i tuoi progetti.

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Rising Sounds: MET, tra Roma e Den Haag, un disco da scrivere e un cambio di rotta

Dai parchi olandesi a un cambio di direzione. Da un duo ad una band. Da Utrecht ad un asse Roma-Den Haag. La storia dei MET si dirama tra due Paesi, parte dalla storia di due ragazzi che si conoscono ad Utrecht e adesso si preparano al lancio di un lavoro curato durante i mesi della pandemia. Ecco a voi la nostra intervista ad Alessandro e Marco dei MET.

Alessandro, Marco, le mie interviste iniziano sempre allo stesso modo. E quindi anche a voi chiederò innanzitutto: Come state, ragazzi?

Marco: Vai Alessandro, è il tuo turno! (Ride)

Alessandro: A posto!

Marco: Eh, io pure! Sto bene, grazie! (Ridono entrambi) Dal mio punto di vista, quest’anno l’ho preso in modo più o meno positivo. Ho preso delle decisioni che sono state distrutte, e i miei piani non sono andati come dovevano, ma nonostante tutto mi sono ricreato delle alternative. Ho deciso di ritornare in Italia, perché mi ero trasferito in Olanda per suonare, però poi il Covid ha limitato le mie possibilità, anche di conoscere altri musicisti. Allungare la mia esperienza lì senza poter fare quello che volevo, non aveva più senso. E quindi sono di nuovo qui.

Come vi siete conosciuti?

Alessandro: Al Conservatorio di Utrecht, in Erasmus, seguivamo lo stesso corso di Poliritmia avanzata, in cui eravamo scarsi entrambi. E questa è una cosa divertente perché tuttora, quando scriviamo dei brani, ci troviamo a riprendere quelle cose e ci sembra di essere ancora lì. Ma il nostro progetto non è nato subito. Il progetto è nato un annetto dopo. Marco, dopo essere tornato a Roma dall’Erasmus, è tornato a Den Haag dove abitavo io, per chiedermi delle informazioni generali sulla vita lì e si è creata questa alchimia straordinaria che ci ha portato a questo progetto.

Da cosa nasce il nome “Met”?

Marco: Perché noi ci siamo “Met”! (Ride)

Alessandro: Ci sono diverse interpretazioni, a dire la verità! In olandese, “met” significa “con”. Quindi è anche il simbolo che c’è nella nostra collaborazione. Alessandro met Marco, o Marco met Alessandro. Poi lo prendi in italiano, e può diventare una di quelle sigle che può rimanerti in testa.

Marco: La cosa bella è che però nessuno capisce il nome. La nostra pagina si chiama “Met Den Haag”, quindi, quando lo diciamo in Italia, nessuno lo capisce, e neanche in Olanda c’è stata questa comprensione immediata, perché neppure gli olandesi capivano quello che dicevamo. (Ridono entrambi)

Com’è stato essere artisti italiani di stanza all’estero, come avete percepito la comunicabilità dei vostri messaggi? Voi avete cantato in italiano, nei Paesi Bassi, cominciavate a pensare di tradurre i vostri brani, però il vostro repertorio è per lo più in italiano. Vi siete sentiti capiti?

Alessandro: Questa è la versione mia personale, e penso che in media all’olandese piaccia il suono della lingua italiana. Mi è capitato spesso di parlare con gente che mi ha detto di non essere tanto interessata alle nostre parole, quanto all’atmosfera della canzone. Ma per me è stato lo stesso, quando ascoltavo i pezzi in inglese, e non capivo cosa dicevano i testi, ma mi piaceva l’atmosfera di quei brani. E per quanto riguarda noi ho percepito lo stesso, non mi sono tanto posto il problema della comunicabilità a dire il vero.

Marco: Per me non è stato lo stesso. Io non l’ho vissuta così, la cosa che dice Alessandro la condivido. Quando mi rendevo conto che il mio messaggio non veniva capito, o comunque veniva trascurato, o comunque gli ascoltatori si affidavano solo alle espressioni di Alessandro rispetto alle parole, mi dava l’impressione di comunicare solo attraverso la mimica. Un po’ l’ho sofferta questa cosa. Io difendo molto le parole, perché le parole hanno un significato.

Alessandro: Vorrei aggiungere una cosa. Quando ho iniziato a scrivere sono diventato più consapevole delle parole. Quando il pezzo diventa qualcosa di più personale è quando nasce una frase che mi lega a lui. Il testo dà senso a tutto, a meno che non sia solo strumentale.

Marco: Allora adesso faccio io una domanda ad Alessandro. Come ti senti quando ti dicono che non hanno capito cosa volevi dire nella canzone? Da compositore, non ti dà un po’ fastidio?

Alessandro: Beh, diciamo che però il pezzo non arriverà comunque nella sua totalità. Per esempio, ci sono state delle scelte compositive che all’ascoltatore medio non arriveranno. Ogni persona in base al proprio bagaglio e cultura percepirà una parte di quello che abbiamo fatto. Però quello che a me importa è trasmettere qualcosa dal punto di vista emotivo. L’impatto emotivo è quello che rimane.

Qual è l’accoglienza che il pubblico vi ha riservato, quando vi siete esibiti?

Marco: Dare una risposta a questa domanda sarebbe un po’ precoce. È vero, abbiamo suonato nei parchi olandesi, e abbiamo cercato di diffondere la nostra musica ma è stato più uno studio per noi, per controllare le reazioni delle persone, e lavorare sul nostro progetto. Le persone che sono venute si sono divertite. Abbiamo cercato di coinvolgere quante più persone possibile.

Come nasce un vostro pezzo?

Alessandro: La parola d’ordine è discordanza. Io e Marco ogni tanto non siamo d’accordo su qualcosa, la vediamo in maniera diversa, ma una cosa che abbiamo in comune è che siamo sempre disposti ad ascoltare l’altro e metterci in discussione. Abbiamo fatto confluire le nostre energie discordanti in risultati positivi. In me e Marco vedo proprio queste energie che si scontrano ma sono sempre in movimento, e hanno una grandissima forza creatrice.

Marco: Beh, la discordanza è un po’ un’antitesi del nome del nostro gruppo, e funziona molto. “Con”, sono cose che contrastano e convergono.

Alessandro: Abbiamo lavorato spesso individualmente, ed è capitato che uno dei due iniziasse con un’idea poi sviluppata dall’altro. Abbiamo scritto con idee dell’uno fluite nell’idea dell’altro. È per questo che alcuni pezzi hanno degli sviluppi inaspettati, perché vanno a mettere insieme idee diverse. È una cosa molto positiva, che rende l’ascolto più inaspettato.

Avete mai suonato in Italia?

Marco: Abbiamo registrato l’album in Italia, e speriamo presto di poter suonare anche in concerti nostri. Stiamo aspettando che la situazione si allenti un po’.

Alessandro: io spero davvero di poter fare presto delle serate in Italia.

A quali artisti vi ispirate, in particolare?

Alessandro: la musica ascoltata nel passato influenza sempre. Si ascoltano talmente tante cose che una risposta secca sarebbe difficile. Nel panorama italiano ho scoperto nel tempo Daniele Silvestri, o anche Caparezza. Conoscevo solo le loro hit all’inizio, però poi approfondendo l’ascolto ho trovato altri brani che mi hanno permesso di apprezzare anche la loro evoluzione come artisti.

Marco: Io non ho proprio una risposta per questa domanda. Mi sento un po’ in imbarazzo, perché di solito quando ascolto musica cerco sempre di studiarci sopra, trovare nuove idee, analizzare. Prendo ispirazione da più artisti, più gruppi.

Stati d’animo è il vostro ultimo lavoro. Ci raccontate un po’ com’è nata l’idea?

Alessandro: Nel corso dei primi tre-quattro pezzi, Marco ha avuto l’illuminazione. Ha detto: sembra che stiamo descrivendo diversi stati d’animo. Cosa che al momento io non avevo realizzato. Per me ogni pezzo era un pezzo nuovo, senza pensare ad un filo conduttore.

Marco: Stati d’animo, cosa significa? Beh, bisogna vederlo anche in modo simbolico. Il filo conduttore che porta da un’emozione all’altra è il cambio di stato. In qualche modo, poteva anche trasmettere la nostra storia, di immigrati che avevano cambiato Stato. La posizione geografica, il cambio di latitudine diventa in modo figurativo un mezzo per parlare delle emozioni umane. Dalla rabbia ci si può trasferire in altre emozioni, come la tristezza, la nostalgia, e questo si può fare. Questo è quello che abbiamo provato a fare.

“Stati D’animo” infatti, è il titolo dell’album di 8 tracce sul quale abbiamo lavorato.

Poi è successo qualcosa, durante questi mesi. Mentre eravamo lì a comporre i brani, abbiamo iniziato a pensare concretamente ad una formazione diversa. Abbiamo sempre voluto avere una band, ma per questioni pratiche abbiamo deciso all’inizio di restare un duo. Poi però nel mese di agosto abbiamo deciso di ritrovarci in uno studio di registrazione romano Undercurrent Recording Studio, al fianco di Daniele Carbonelli, bassista e fonico, e Pierluigi Picchi, batterista, per tutti quei brani che avevano una matrice rock ed erano destinati ad essere suonati da un gruppo di musicisti fatti di note ed ossa.

Scivoliamo sul viale dei ricordi. Qual è il vostro ricordo più bello legato alla musica?

Alessandro: Riformulo leggermente la domanda e condivido il primo ricordo che mi è venuto in mente. E non so se è il più bello, ma è il primo che mi è venuto in mente. C’è stata una gara di karaoke che ho fatto quando avevo 18 anni e ho cantato Time is running out dei Muse. Quando ho finito il pezzo ho avuto questo grandissimo applauso del pubblico che è stato anche il mio primo applauso. L’energia del pezzo, l’adrenalina di cantarlo, quell’applauso alla fine mi hanno dato un’emozione che quella notte non mi ha lasciato dormire.

Marco: Potrei condividere anch’io il primo ricordo che ho della musica, perché è stata un’emozione che mi ha colpito parecchio. Mi ricordo che quando avevo più o meno cinque anni ho passato qualche pomeriggio a suonare pianoforte a casa di una mia zia. E suonavo note random. Ero un bambino che si annoiava, non sapevo cosa fare, e iniziai a suonare delle note che mi colpivano. Ogni tasto premuto dal mio dito aveva un impatto molto forte. Le note erano connesse alle mie emozioni. E mi ricordo che riuscivo a riconoscere quello che stavo suonando, cercavo di imitare la pubblicità della Barilla. (Ridiamo) Per anni non ho suonato, ho ripreso molto tempo dopo, e quando ho ripreso in mano la chitarra ho ritrovato quella connessione con le note.

Invece se doveste scegliere il ricordo più brutto, o più triste, quale sarebbe?

Marco: Io ho un ricordo bruttissimo, uno dei ricordi più brutti che ho. Una volta ero a lezione, dovevo fare un concerto con una big band, e dovevo dividere trenta pezzi con un altro chitarrista. Avevo studiato solo i miei pezzi. Studiai tutta la settimana, non dormii nemmeno. E quando arrivai a quella lezione, l’altro chitarrista non venne. E io mi ritrovai con tutti i pezzi da fare, ma non ero preparato, mi vergognavo tantissimo! L’insegnante si incazzò con me, fu uno dei giorni più brutti della mia vita da musicista. Però a parte quello, non mi lamento! (Ride)

Alessandro: mi viene in mente una cosa simile. Una mia amica mi disse che un gruppo di salsa cercava un pianista. E così mi sono ritrovato lì con le parti, che non avevo studiato, e sentivo le loro aspettative su di me che non riuscivo a sostenere perché non conoscevo i pezzi. Però poi ho imparato tutti i pezzi, e dopo un po’ sono andato abbastanza bene. Loro hanno aspettato che imparassi tutto il repertorio, senza pressioni. È una storia a lieto fine!

C’è qualcosa che rifareste assolutamente del vostro percorso?

Alessandro: Credo che tornerei al centro musicale di Mogol in Umbria. È stata un’esperienza positiva, di confronto con altri musicisti. La prima volta lo feci nel 2012, avevo vinto una borsa di studio mentre ero al conservatorio. Ci sono ritornato l’anno scorso e stavo pensando di tornarci anche l’anno prossimo, è stata un’esperienza davvero positiva e formativa.

Marco: Io sceglierei ancora la musica, seguirei la mia intuizione e rifarei il conservatorio. Senza cambiare idea.

E qualcosa che invece non rifareste per nulla al mondo?

Alessandro: Forse gli ultimi esami al conservatorio. Però non posso davvero rispondere a questa domanda. Perché seppure quegli ultimi esami sono stati un mezzo insuccesso, lì ho conosciuto Marco, e da lì ora ci ritroviamo a suonare insieme per questo progetto. Gli errori ti insegnano sempre qualcosa.

Marco: Ce l’ho un rimpianto, ma c’entra relativamente con la musica. Non manderei in giro i curriculum con un indirizzo olandese, perché poi sono ritornato in Italia e adesso tutte le domande sono incasinate!

Ci salutiamo promettendoci prima o poi un incontro dal vivo e non mediato da Skype, e dai soliti problemi tecnici, immancabili, sempre in agguato in questa nuova epoca delle interviste-covid. Saluto Marco che si trova tra le strade di Roma, Alessandro che è a Den Haag, e presto speriamo davvero di poterli ascoltare tra il pubblico di un loro nuovo concerto.

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5 cose che non sapevi su Sting

Il Re della musica oggi compie 69 anni! E quale modo migliore di festeggiare, se non scoprendo qualcosa di nuovo su di lui? Ecco a voi 5 curiosità su Gordon Sumner che fino ad ora avevate ignorato!

1) Nella testa di Sting
Nel 2009, Sting si è offerto volontario perché un team di neuroscienziati, capeggiato da Daniel Levitin, studiasse tramite risonanza magnetica cosa stesse accadendo nel suo cervello durante i momenti in cui il musicista era intento a cantare o suonare. I risultati dello studio, sono visibili nel documentario The Musical Brain. Sting era molto divertito dall’idea di partecipare all’esperimento, ed è stato molto felice di fungere di cavia per scoprire i segreti del suo cervello.

2) Una scatenata sestina!
Sting ha sei figli, due avuti dalla prima moglie, Frances Tomelty, tutti gli altri avuti dall’attuale moglie, Trudie Styler. Due di loro, Eliot Pauline e Giacomo Luke, sono nati proprio in Italia.
Provenendo da una famiglia di umili origini, ed avendo sempre lavorato duramente, Sting non intende lasciare una cospicua eredità alla prole, ma niente panico! I ragazzi sono in gamba e i loro genitori li sostengono alla grande.

3) Pungiglione canterino
Il vero nome dell’artista è Gordon Matthew Thomas Sumner. Ma da cosa deriva, invece, lo pseudomino col quale è riconosciuto dal mondo intero? Niente di più semplice, Sting, in italiano “pungiglione”, sarebbe stato il soprannome dato al musicista dai suoi amici per via del vestiario, composto in gran parte da magliette a righe gialle e nere, indossate soprattutto durante le performance dal vivo.

4) Una vita tranquilla
Sting ha frequentato l’università di Warwick, ma non ha mai conseguito il titolo accademico. Ha sempre sognato di fare un lavoro tradizionale, ed infatti è stato professore di inglese per un periodo, affiancherà a questo lavoro anche l’insegnamento dell’arte del disegno. Tuttavia, quando nel 1976 fonda i Police, le cose sono destinate a cambiare leggermente il loro corso.

5) Sotto il sole della Toscana
Sting e sua moglie Trudie Styler posseggono una splendida villa in Toscana, Il Palagio, situata nella zona a sud di Firenze. La coppia si è ben presto occupata della produzione di vini, alcuni dei quali portano come nomi: Message in a Bottle, Sister Moon, When We Dance, ed ovviamente, Roxanne, in versione bianca o rossa.

Tu conoscevi queste curiosità? Faccelo sapere!

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SPECIALE RISING SOUNDS: Il Club 33 giri, culla della musica emergente

Quando abbiamo scelto di dare vita a Rising Sounds, nei mesi scorsi, l’abbiamo fatto per un semplice motivo: ognuna di noi è fermamente convinta che la musica possa continuare a vivere, a dispetto delle molte (e, purtroppo, veritiere) teorie che la vorrebbero ormai sul viale del tramonto.

Qualcuno potrebbe obiettarci che credere ancora nella musica nuova sarebbe un po’ troppo idealista, ma noi risponderemmo che senza ideali, l’esistenza su questo pianeta si ridurrebbe alla sopportazione passiva dei giorni che si susseguono. Rising Sounds, da parte nostra, era uno spazio dedicato esclusivamente alle idee più fresche, più nuove, ai sogni di chi, come noi, nonostante tutto ci crede ancora.

Perché questa premessa lunga e forse poco catchy? Beh, perché per il primo numero di Rising Sounds di questa nuova stagione abbiamo incontrato qualcuno che come noi ci crede ancora, e che lotta per tenere in vita la musica anche in una realtà abbastanza complessa come quella del Sud dell’Italia.

Roberta Cacciapuoti è la direttrice artistica del Club 33 giri, un collettivo giovane di Santa Maria Capua Vetere, nella provincia di Caserta, che si impegna a tenere vive le arti e il senso di comunità da esse generato. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere, chiedendole di raccontarci qualcosa sul loro progetto, che diventa anche culla della musica emergente.

Ciao Roberta, la mia domanda di rito, prima di cominciare ogni intervista è: Come stai?

Mah, guarda, ieri sera ho mangiato un po’ pesante… (Ridiamo, rompendo il ghiaccio all’inizio di ogni incontro così, da botta e risposta.) Fortunatamente sto bene, anche se è un periodo strano, molto particolare. La cosa importante in questa fase è riuscire ancora a fare le cose che ci piacciono.

Questo numero di Rising Sounds è leggermente diverso dagli altri. Perché oggi il nostro protagonista non è un singolo gruppo o artista emergente, ma una culla di artisti emergenti. Com’è nata l’idea del Club 33 giri?

Ti risponderò a questa domanda, anche se quando il Club è nato, io non c’ero. L’associazione è stata fondata nel 2012. Molto banalmente, si voleva creare uno spazio che in quel momento mancava ai ragazzi di Santa Maria, e di Caserta in generale. C’era l’esigenza di avere un posto nel quale poter suonare e far suonare i gruppi dei nostri amici, o guardare film, organizzare piccoli eventi, scambiare opinioni e farci quattro chiacchiere. L’idea era quella di creare uno spazio di condivisione, aggregazione, di cui sentivamo davvero bisogno nel nostro territorio. Purtroppo, la nostra terra, soprattutto dal punto di vista culturale, non ha mai offerto tantissimo, soprattutto ai giovani. E quindi, molto semplicemente, invece di cercare questo spazio fuori dalla città, si è creato al suo interno.

È proprio il caso di dire Homo Faber.

Sì, assolutamente. È chiaro che lo spazio è stato creato in base alle nostre esigenze, e negli anni c’è stato un grande ricambio all’interno del collettivo. Molti dei ragazzi che hanno fondato il club, chi per volontà, chi per necessità, sono andati fuori, cosa che ha comportato il subentro di nuove persone. Però quello che ho notato, che notiamo in generale, è che l’associazione resta sempre e comunque un punto di riferimento. Chi ritorna a casa, ritorna al Club. Non solo dal punto di vista “culturale”, considerando che non abbiamo mai avuto la pretesa di voler fare cultura, ma di condivisione. È quello che abbiamo voluto fare, sopra ogni cosa. l’associazione è diventata un punto di riferimento per la musica, per l’arte, per il cinema, ma soprattutto umanamente. È quella la parte più importante per noi.  

Adesso quante persone collaborano alla gestione del Club?

Il direttivo è composto da più di 20 persone. E chiaramente ci sono i collaboratori che si aggiungono durante il festival, e in quel periodo arriviamo anche alla cinquantina di persone.

Wow. Bisognerà mettere d’accordo diverse teste, immagino.

Sì, ma anche quello è il bello dell’associazione. Secondo me lo scambio di idee e la diversità che c’è tra noi sono i nostri punti di forza. Inevitabilmente, essere tanti ci arricchisce per forza di cose.

Più o meno, quanti artisti avete accolto sul vostro palco?

Abbiamo organizzato circa 200 concerti dall’inizio. In otto anni, si parla di almeno 150 artisti, tantissimi. Chiaramente, per forza di cose, la maggior parte degli artisti che abbiamo ospitato proveniva dalla Campania. Però, negli anni abbiamo provato anche a fare un po’ di scouting a livello nazionale, ospitando artisti anche provenienti da altre regioni. Sono stati delle scommesse, ma è questo il bello di avere un’associazione libera. Non dovendo fare lucro, noi possiamo utilizzare i nostri fondi anche per scommettere sugli artisti, provando a fare qualcosa di nuovo. Quando abbiamo trovato artisti che ci piacevano, abbiamo provato ad organizzare concerti. E il più delle volte questi concerti si sono rivelati delle sommesse vinte, il pubblico ha risposto molto bene.

Come funziona, quindi, la vostra selezione? Gli artisti si propongono o siete sempre voi a contattarli?

Un primo filtro lo faccio in prima persona. Arrivano proposte da agenzie o dagli artisti stessi, ed io, che mi occupo della direzione artistica, faccio una “scrematura”, tra virgolette, sempre basandomi un po’ sui nostri gusti e su quelli del pubblico che, ormai, abbiamo imparato a conoscere. Quello che pensiamo possa piacere e quello che riteniamo più originale, promettente. Dopodiché, presento una rosa di artisti al direttivo e da lì decidiamo insieme i passi successivi, anche in base alle possibilità economiche del momento. Tutte le decisioni che prendiamo, come associazioni, le prendiamo collettivamente.

La vostra è un’organizzazione molto particolare. Non c’è un leader che ha l’ultima parola. Sono davvero decisioni prese in comune, è notevole.

Sì, aiuta anche il fatto che ognuno di noi ha le proprie competenze e professionalità. Negli anni, io per esempio mi sono specializzata in questo ambito e concretamente faccio la direzione artistica, però le decisioni alla fine le prendiamo insieme. In ogni ambito è così, per la grafica, per il cinema, ognuno ha un suo ruolo all’interno del collettivo ma ci interfacciamo sempre.

Probabilmente, questa vostra diversità all’interno del direttivo può aver rappresentato la vostra colonna. Il Club ha una storia lunga, altre realtà del territorio non sono sopravvissute tanto quanto la vostra.

Sì, considerando che all’inizio del Club eravamo più liberi, e adesso gestire l’associazione diventa più complesso. Ma nonostante questo, nonostante anche la distanza di alcuni membri che seguono le nostre vicende da lontano, lo zoccolo duro è stata la nostra diversità. E un’altra cosa che ci ha tenuto in vita è stata la voglia di mantenere vivo il club. Perderlo ci avrebbe fatto stare male. Volevamo farlo, e l’abbiamo fatto. Anche se non è stato sempre facile.

Mi chiedevo proprio questo. Quant’è stato difficile mantenere alta la voglia di fare?

Credo sia inevitabile che ogni passione, come ogni amore, richieda sforzi e sacrifici. In otto anni abbiamo visto di tutto e superato di tutto, e non è stato facile. Abbiamo avuto alti e bassi, ma alla fine abbiamo trovato sempre una motivazione per continuare, andare avanti. Volevamo conservare il nostro posto sicuro. Un luogo nostro. In cui potevamo esprimerci, e avere uno spazio in cui trovare persone che ti supportano, ti ascoltano, e questo ci ha dato la spinta per proseguire. Il nostro obiettivo è stato sempre molto chiaro, non volevamo fare lucro, ma avere un palco sul quale fare esprimere noi e chi ruota attorno alla nostra associazione. Abbiamo fatto rete, collaborato con molte realtà del territorio come il Teatro Civico, la Libreria Spartaco di Santa Maria. Nel nostro territorio, se non si fa rete non si va avanti. Noi abbiamo sempre cercato di collaborare con il più alto numero di persone, e proviamo a fare calendari che non vadano in conflitto tra loro.

Nell’ultimo anno, anche grazie al Lockdown, ironia della sorte, siamo entrati nella rete di Keep On, un’associazione di categoria che si occupa dei Live Club e dei festival. Tramite i ragazzi di Keep On abbiamo avuto la possibilità di interfacciarci con realtà come la nostra ma provenienti da tutti i posti di Italia, da Torino a Palermo. Durante il Lockdown abbiamo organizzato tutti insieme dirette streaming, e tutti i giorni per mezz’ora abbiamo avuto una diretta musicale. Tutto questo grazie a Keep On che ha messo in piedi questa iniziativa.

Ho notato che in questo periodo il Club ha aperto una raccolta fondi. Ti va di parlarcene un po’?

Erano un po’ di anni che avevamo in mente di dare il via ad una campagna di crowfunding, soprattutto per finanziare il nostro festival, La Musica Può Fare. Però, alla fine, non abbiamo mai avuto davvero bisogno di farla perché il festival è riuscito sempre a sostenersi da sé. Ma stavolta, dopo la chiusura, ci siamo visti un po’ costretti. Siamo chiusi da marzo e concretamente non sapremo quando potremo riaprire. Bisognerà monitorare la situazione, e vedere quali saranno le direttive istituzionali. Chiaramente, però, ci sono delle spese che restano e lo scopo della campagna è per l’appunto finanziare queste spese e le attività di ripartenza. Speriamo di riuscire a raggiungere quest’obiettivo tramite le donazioni. Produzioni Dal Basso ci è stata molto vicina, tramite Keep On. C’è un tutor che ci ha seguito, dato consigli, e al momento la campagna è quasi a metà. Non sappiamo se riusciremo a raggiungere la cifra. Abbiamo volutamente puntato in alto, per un’ulteriore scommessa. Il motto della campagna è “Play Together”, insieme è più bello, per noi. E il sottotitolo è “Teniamo accesa la musica”. Abbiamo sentito tantissimo la mancanza dei concerti quest’anno. Io vado a circa cento concerti all’anno, e perderli tutti è stato un trauma. Vogliamo riaccendere questi palchi.

Cosa avete in programma, quindi, per il prossimo futuro?

Per il momento vogliamo recuperare i live che abbiamo dovuto annullare a marzo e aprile. Per dirtene alcuni, quello di Katres insieme a Micaela Tempesta, due cantautrici campane bravissime, o quello dei Sex Pizzul, una band fiorentina che è tra le nostre più recenti scoperte. Tutta una serie di live in programma che sono saltati, e poi ricominceremo a programmare con il nuovo.

Parliamo del vostro festival, La Musica Può Fare. Quest’anno avete dovuto rinunciare anche a quello. Emotivamente com’è stato?

Non fare il festival ha comportato un lutto emotivo. Dopo otto anni, non farlo è stato particolarmente triste. Oltre che dispiacere per il fatto che una parte del ricavato del festival è sempre stata destinata a una realtà sociale e solidale, mentre un’altra parte del ricavato copriva le spese di gestione durante i mesi di chiusura estiva. Chiaramente, non poter fare il festival ha comportato l’impossibilità di sostenere alcune spese. Siamo estremamente grati per l’affetto e il sostegno che stiamo ricevendo in questo periodo, attraverso la campagna. L’affetto non è mai scontato, ed è sempre bello riceverlo. Negli anni tantissimi artisti hanno voluto suonato da noi, hanno presentato per la prima volta dei dischi da noi, hanno condiviso delle cose bellissime. Si è creata una rete d’amore.

E adesso ti chiedo di raccontarmi l’episodio più brutto capitato al Club.

Un paio di volte ci siamo allagati. Fortunatamente questa cosa ora non succede più. Quando però succedeva, era davvero un disastro. Dovevamo rimontare il palco, asciugare le pedane di legno. Qualche volta abbiamo dovuto buttare roba non recuperabile. Questi ricordi sono abbastanza traumatici.

E invece qual è stata la cosa più bella mai accaduta?

Quando la serata va bene e le persone si divertono, è sempre bellissimo. Ma sicuramente uno dei ricordi più belli che rimane nella storia dell’associazione è il primo concerto di Santi, Poeti e Navigatori, che hanno organizzato Joseph Foll, Blindur e Lelio Morra, tre amici fantastici dell’associazione. Fu un concerto organizzato ad hoc per il club, mai più ripetuto. È uno dei ricordi più belli. Una festa, ci siamo divertiti tantissimo. C’erano tutti gli amici, persone da fuori, un concerto bellissimo.

Ti chiedo una cosa leggermente provocatoria. Avete organizzato molti concerti e conosciuto tantissime persone. Vi siete mai pentiti di aver collaborato con qualcuno?

In realtà pentiti no. Inevitabilmente, musicisti ed artisti sono esseri umani. Quindi, come tutti, può esserci alchimia oppure no. Ogni esperienza è stata fonte di ricchezza e ci ha insegnato qualcosa per la volta successiva. Negli anni l’associazione ha stretto rapporti con alcuni artisti più che con altri, ma per inclinazioni naturali. La maggior parte dei musicisti con cui abbiamo collaborato è rimasta in buoni rapporti con noi.

Beh, Roberta, la nostra intervista è finita e sono davvero felice, è stato bellissimo parlare con te. Quello che fate è davvero incredibile, e vedere che combattete per le cose importanti e fare vostri i sogni degli altri ci riempie di orgoglio. Cosa vuoi dire per concludere questa chiacchierata?

Voglio innanzitutto ringraziare tutte le persone che ci sostengono da anni e ci supportano, e speriamo di poter allargare ancora di più la nostra famiglia. Chiunque si voglia avvicinare ad una realtà come la nostra, è sempre il benvenuto.

Sito del club: Club33giri

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