L’8 luglio, a mezzanotte in punto, è stato pubblicato 1997, il primo album di BKM, artista calabrese e itinerante. Oggi ne parliamo su Rising Sounds, la nostra rubrica dedicata alla musica emergente.
Qualcuno ci ha insegnato che a un certo punto tutti, nessuno escluso, capitoleremo. Che la “vita vera” avrà la meglio e che prima o dopo smetteremo di credere in noi e quello che possiamo diventare, e non penseremo più che possiamo fare la differenza, che possiamo essere la differenza.
Ma a dirla tutta credo sia proprio arrivato il momento di smettere con l’accettazione acritica di questo dogma. Noi possiamo ancora essere quello che vogliamo, possiamo risorgere dal male che ci tiene schiacciati a terra, dalle cose più forti di noi. Non possiamo controllarle, no? E allora che senso ha lasciare che dominino ogni aspetto della nostra vita? Perché non liberarci anche da quello che ci hanno imposto?
Cambiare rotta, cambiare punto di vista, cambiare approccio. È questo che emerge dal primo album di BKM, 1997. Non dimenticare chi siamo mentre il mondo ci schiaccia.
Io ho conosciuto BKM nell’autunno del 2019, quando abbiamo lavorato insieme per Italian Radio a Utrecht. Lo chiamerò col suo nome da profano, Bruno, e vi dirò che nei mesi trascorsi nella sala congressi del magazine che occuperà sempre una parte importantissima del mio cuore, non sono mai mancate idee, risate. E soprattutto, passione per la musica, per le novità, per le sperimentazioni artistiche. L’uscita di questo album meno di tre anni dopo, che è così ricco, così pieno, con l’emozione che dirompe come un fiume che rompe gli argini, mi tocca profondamente. Perché è un sogno che prende corpo. Perché dedicarsi a un progetto emergente non è mai facile – e io lo so – e quello che colpisce è la dedizione, la caparbietà, la forza di essere arrivati a questo punto. Non un traguardo, ma un trampolino di lancio.
1997 è un manifesto generazionale ma parlarne in questi termini sarebbe riduttivo. Il suo messaggio, che colpisce a ogni latitudine, soprattutto colpisce noi che siamo nati negli anni ’90, che siamo figli del Sud e che amiamo e odiamo le nostre origini, che ci sentiamo soffocare nelle nostre piccole realtà e che abbiamo bisogno di evadere, che vogliamo solo sentirci dire che va tutto bene, che abbiamo il diritto negato del comfort, della sicurezza, e per questo vorremmo solo gridare e siamo arrabbiati, siamo arrabbiati e proviamo rancore. E il dopo, il futuro, ci spaventa a morte, e ci toglie il terreno sotto i piedi.
In 7 brani e poco più di 20 minuti c’è il riassunto veritiero di cosa voglia dire essere uno di noi. E deve essere gridato per strada. Perché quel grigiore che ci hanno imposto quando ci hanno insegnato che prima o poi avremmo capitolato, che avremmo accettato “il resto della nostra vita” incombente sulla nostra giovinezza, venga annientato. Non sarà così. Non deve essere così. E 1997 dice proprio questo. Che “non saremo mai come vogliono”, e il beat ci dà forza, e non ci spegneremo mai. Abbiamo bisogno solo di mezzi per ricordare chi siamo e direi proprio che questo album, a questo riguardo, fa il suo dovere.
Bravo BKM, bravo Bruno, bravi tutti quelli che hanno collaborato a questo piccolo pezzo per riappropriarci della nostra vita, della nostra identità, e del controllo su chi siamo.
Sempre così.
Copertina di 1997
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Da uno stoner puro ad un rock ricco e pieno di influenze. Un vulcano di creatività, un’amicizia quasi decennale. Ve li presentiamo oggi, per Rising Sounds. Ecco a voi, i WaterCrisis.
Primo giorno di zona arancione in Campania. Lavoro al pc per qualche ora, prima di incontrare la band da intervistare. È un lunedì iperattivo, sono in attesa di una consegna da Bartolini. Arrivano le 12:00, accendo Skype.
I Watercrisis, di fronte a me, non sono al completo, ma sono i tre membri “più anziani” del gruppo, Caterina, Francesco e Antonio. Il loro attuale batterista, Simone, si trova nei Paesi Bassi. Chiacchieriamo un po’ del più e del meno, e poi a bruciapelo inizia l’intervista, in sottofondo, si sente una tromba suonare e dall’esterno, un cane che abbaia.
Nome collettivo: WaterCrisis. Un nome, in questi tempi critici per il pianeta, dolorosamente attuale. C’era un intento particolare dietro la sua scelta?
Caterina: Anche se ci associano spesso alla tematica “siccità”, e sappiamo quanto sia importante soprattutto in questo periodo, la scelta del nome non c’entra nulla con la questione ambientale. Più che altro, è una metafora per rappresentare l’ambiente in cui ci troviamo, un po’ arido a livello di stimoli, idee, motivazione…un clima un po’ secco. Con la nostra musica, volevamo dare un contributo vero, sincero, con la speranza di tenere vivo il mondo che ci circonda.
Francesco: Il nome si avvicina di più alla sfera del nostro genere (Stoner Rock), più che alla questione ambientale. Anche se a dire la verità, adesso non facciamo più solo quello, stiamo cambiando parecchie cose. Abbiamo molte influenze diverse, proviamo a metterle insieme.
Vi presentate per Rising Sounds?
Antonio: Antonio Castaldo, bassista del gruppo, un po’ tutto fare. (Ridiamo un po’ tutti, la mia gatta Heaven prende parte alla conversazione contribuendo all’ilarità generale).
Caterina: Manager, oltre che bassista! Si occupa di marketing, social, fa tutto lui.
Antonio: Cerco di risparmiare per la band, di cui poi in realtà faccio parte anch’io. Lo faccio solo per questo in realtà!
Francesco: Sono Francesco, il chitarrista. Scrivo le canzoni. E cago il ca**o a loro due.
(Ridiamo ancora, e ho il sentore che durante quest’intervista ci divertiremo parecchio) Scrivi le canzoni da solo?
Francesco: No, assolutamente no!
Antonio: La maggior parte sì, però.
Caterina: Struttura, armonia, spesso sono opera sua.
Francesco: Anche se devo dire che ultimamente ho cambiato modo di fare. Prima era più un lavoro individuale, ora cerco di farlo insieme a loro. I testi attualmente li scrive Caterina. Prima facevamo a metà. Adesso magari dico a Caterina l’idea che ho in testa e lei scrive. Siamo diventati anche più veloci nella scrittura.
Richiesta catchy: Descrivetevi in tre parole.
Caterina: Beh, diciamo che se mi vengono in mente solo insulti è un problema. (Ridiamo tutti) Distratta, impulsiva.
Antonio: Ritardataria!
Caterina: Ma devo dirle io, le parole! (Ridiamo) Sono distratta, impulsiva, e molto sensibile.
Francesco: Io, come ho detto anche prima, sono un cagaca**o, molto irascibile, e una cosa positiva ditela voi! Non mi vengono le cose positive.
Credo sia l’imbarazzo della telecamera. (Naturalmente, come ormai da un anno e più, siamo in video-call).
Francesco: No, dai, la cosa positiva è che mi vengono molte idee. Di queste molte vengono scartate, ma poi ce c’è almeno una buona.
Antonio: E io come posso descrivermi? Allora…sono molto socievole, preciso, e intraprendente.
Okay, allora sei assunto!
Antonio: Diciamo che tra noi ci equilibriamo a vicenda.
Francesco: Siamo una sorta di fabbrica, ci completiamo.
Come si siete avvicinati alla musica?
Francesco: Io mi sono avvicinato alla musica da piccolo. Ascoltavo molta musica diversa, ma ho iniziato a suonare grazie ad un mio amico che si chiama Antonio. Non lui! (Indica Antonio, e ridiamo di nuovo) Un chitarrista. Da lì ho conosciuto Doors, Steve Ray Vaughan, AC/DC, Sum41, ed è iniziato tutto. Sono stato sempre molto affascinato dai generi rivolti verso psichedelia e blues, e cantautorato italiano.
Caterina: Le mie zie avevano un’accademia musicale, quindi ho iniziato a studiare pianoforte quando ero in terza elementare. Poi ho cominciato a studiare canto lirico, ma ero metallara dentro, e mio fratello mi ha fatto ascoltare moltissima musica. Ho iniziato a cantare musica leggera, ho studiato jazz, ma con la band ho iniziato a fare quello che mi piaceva.
Antonio: Devi sapere che di solito mi prendono sempre in giro. Nella mia famiglia, a nessuno interessa della musica. Proprio ieri mio padre mi fa “Ma lo sai che non ho mai comprato un disco?”. Beh, bene, bravo! Mio fratello mi fece ascoltare Afterhours e Verdena, e gruppi simili, ed un amico di mio fratello un giorno, mentre ascoltavo musica house, che era l’unica cosa che conoscevo, mi disse “Tieni, senti questo!”, e così ho conosciuto i Nirvana. Nirvana, Queens of the Stone Age e Nickelback, un trio strano, ma non male come inizio. Crescendo, mi sono appassionato alla musica. Ho conosciuto Francesco ed altri ragazzi che suonavano, a loro serviva un bassista. Io però volevo suonare la batteria! Ma vivo in un condominio ed è impossibile suonare la batteria in un condominio, e così mi sono “accontentato” del basso. Adesso, tornando indietro, non cambierei idea. Suonare il basso ti rende quello che ha più responsabilità in un gruppo, e questo fa anche parte della mia personalità.
Da quanto tempo suonate insieme?
Francesco: Una decina d’anni?
Caterina: Prima del 2015, mi sa. Credo sette o otto anni.
Antonio: Abbiamo sopportato Caterina per tanto tempo.
Caterina: Il sopracciglio si alza sempre di più!
Antonio: No, in realtà adesso non ti sopportiamo più! Ora ci troviamo meglio. C’erano incomprensioni caratteriali.
Francesco: Ci sono ancora, ma adesso facciamo finta di non vedere.
Caterina: Va beh, adesso vi lascio soli e me ne vado.
Antonio: Oggi secondo me siamo così uniti proprio perché parecchie volte siamo arrivati al limite. Ognuno di noi, prima o poi, ha minacciato di lasciare il gruppo. Ma mentre lo dicevamo, qualcun altro organizzava le prove per la settimana successiva.
Come vi siete conosciuti? Cosa vi ha portato alla creazione di una band?
Antonio: Dopo che mi hanno obbligato (sottolinea la parola, e ridiamo tutti nuovamente) a suonare il basso, c’era un’altra cantante. All’improvviso, se n’è andata. Io conoscevo Caterina, e non sapevo nemmeno come cantasse. Vidi un suo video su Facebook di una cover di Rolling in the deep fatta male.
Caterina: Hanno solo belle parole per me.
Antonio: Quello che ci fece confermare Caterina come cantante, fu il fatto che alle prime provò si portò dietro un’amica. Si vergognava, voleva compagnia. L’amica venne alle prove, bevve un bicchiere di vino e vomitò. Quindi da allora, ci innamorammo di entrambe.
Caterina: Praticamente, io suono con loro perché la mia amica ha vomitato. (Ridiamo) Il problema è stato trovare “la nostra voce”. All’inizio non riuscivamo ad accordarci su cosa fare, poi un giorno facemmo la cover di Muori Delay dei Verdena, mentre scrivevamo i primi inediti. Dopo questa cover venne fuori una natura molto più simile a quello che volevo esprimere.
Antonio: Venne fuori una parte di Caterina molto bella. Mi ricordo, quando la provammo, ci fermammo proprio, sorpresi, non ce l’aspettavamo.
Francesco: Oggi, ci dicono che la parte “grunge” del nostro gruppo è proprio la voce di Caterina.
Quanto è stato difficile mantenere una formazione stabile nel corso del tempo?
Antonio: Noi abbiamo avuto sempre un po’ di sfortuna coi batteristi. Adesso, il nostro batterista, Simone, è in Olanda perché è partito per l’Erasmus. Però, visto che avevamo in programma la registrazione di alcuni brani in acustico, quindi abbiamo deciso di registrare comunque e chiedere ad un altro batterista di suonare, Pasquale Renna. I risultati sono stati davvero buoni.
Francesco: Pasquale ha dato proprio un colore diverso ai brani, ma diverso nel senso giusto.
Antonio: All’inizio, avevamo paura di non riuscire a comunicare bene con un professionista. Invece le cose sono andate ben oltre alle aspettative. Anche perché Pasquale ha proposto molte cose, e a me piace molto chi ha iniziativa. Col batterista prima di Simone non c’è stato molto feeling, purtroppo. Non siamo riusciti a carburare insieme. Simone parla molto, e spesso siamo in disaccordo, ma comunque mi piace molto lo scambio di opinione.
Caterina: Ha molte idee, anche oltre la batteria. È molto più vicino a com’era la nostra formazione con Bob, il nostro vecchio batterista.
Antonio: Sì, Bob ha lasciato il gruppo prima della promozione del disco, e quindi abbiamo avuto molti problemi nella promozione. Gli dobbiamo molto comunque, perché ci ha dato uno slancio creativo. Ma ha preferito dedicarsi alla composizione, e ha seguito le sue inclinazioni.
Caterina: Invece, per quanto riguarda i rapporti tra noi tre, per quanto spesso possiamo litigare o non andare d’accordo, comunichiamo molto. Parliamo spesso, e quindi proprio per questo riusciamo a superare tutti i problemi.
Quando vi siete davvero sentiti pronti per la registrazione del vostro album Sleeping Sickness (2018)? Qual è stata la sua storia?
Francesco: Abbiamo finito i pezzi cinque giorni prima dell’uscita ufficiale dell’album.
Antonio: Sì, poco prima di consegnare la tracklist all’etichetta, ci mancavano cinque brani.
Caterina: Avevamo solo i loro titoli. Cioè, avevamo solo l’idea dei brani. Non eravamo troppo preparati, abbiamo dovuto scegliere un titolo per un brano che non esisteva. Ci siamo sentiti un po’ come quando facevamo i compiti a scuola, avevamo una traccia e dovevamo svilupparla. Uno di questi brani, poi è diventato il mio preferito dell’album.
Antonio: Abbiamo deciso di fare l’album dopo il concerto in cui abbiamo aperto i Lacuna Coil. Eravamo gasatissimi, comunicammo all’etichetta che volevamo fare il disco ma ci mancavano i brani.
Francesco: Avevamo appena fatto Slaughter.
Antonio: La figura di Bob è stata importantissima in questo senso. Suonavamo da lui, in una campagna di Avellino, e provavamo per tantissime ore. Abbiamo composto, trovato il nostro sound.
Cos’è successo dopo il lancio del disco?
Caterina: Qui è arrivata la nota dolente. Abbiamo iniziato a pubblicizzarlo, suonando in giro, ma poi Bob ha deciso di lasciare. Quindi il lavoro del disco è stato messo in stand-by. Abbiamo cambiato due batteristi nel frattempo, e adesso stiamo riprendendo un po’ quei brani. Non vogliamo perderlo, ci abbiamo lavorato molto. Poi adesso, insieme a Simone, stiamo lavorando anche a nuovi progetti. Speriamo di poterli suonare tutti molto presto.
Prima di salutarci, raccontateci qualche episodio della vostra storia di band. Riuscite a trovare un ricordo più bello ed uno più triste da condividere con noi?
Caterina: Io credo che il momento più bello per il nostro gruppo sia stato il concerto di Manduria. Non solo perché aprivamo i Lacuna Coil, ma anche perché eravamo su un palco gigante. Con tantissime persone davanti!
Francesco: Sì, è stato bellissimo arrivare lì il giorno prima, dormire in tenda, sporcarsi di sabbia.
Caterina: Invece, forse il più brutto è stato perdere Bob. Avevamo faticato un po’ per trovare un equilibrio, e poi tutto si è rotto. Però non ci siamo arresi, e adesso siamo ancora insieme, e con Simone al nostro fianco siamo veramente contenti.
Antonio: Finalmente, il nostro batterista sa dove mettere la cassa (Ridiamo tutti)
Prima di salutarci, continuiamo a chiacchierare. Quando chiudiamo la conversazione, mi sento leggera. I WaterCrisis, con la loro amicizia, la loro voglia di crederci ancora, la motivazione che è riuscita a superare tutti gli ostacoli, dimostrano a tutti che la musica è ancora viva. Che non è solo numeri, pubblicità, aridità. E la siccità metaforica che il loro nome richiama, a mio parere, questi ragariescono a sconfiggerla alla grande.
Il numero di Rising Sounds di questo mese è dedicato a Vittorio Copioso. Classe ’92, è un giovane pianista, produttore e compositore campano. Attualmente, insegnante di musica e potenziamento musicale per la scuola secondaria di primo grado. Alle spalle un percorso di studi in conservatorio e doppia specializzazione al biennio, e oggi ci parla dei suoi progetti futuri, tra EP, videoclip e trasferimenti in tutt’Italia.
Ciao Vittorio, la prima domanda è: Come stai? ‘Na bomba (Ridiamo) Si lavora, si suona e si cazzeggia. E si fanno videoclip in casa.
Dov’è che stai trascorrendo questo nuovo semi-lockdown? Precisamente, adesso mi trovo a Borgo Tossignano, nella provincia di Bologna.
Com’è iniziata la tua storia d’amore con le note musicali? È iniziata quando avevo sette anni e suonavo la tastiera. È iniziata con le basi musicali, e le canzoncine. Poi sono cresciuto, e mi sono avvicinato allo studio del pianoforte classico con il maestro Martino Nacca. È stato grazie a lui che ho scoperto il mondo del prog rock e, più in generale, del pianismo moderno. La mia prima formazione è proseguita poi nell’Accademia Arturo Toscanini di San Nicola La Strada, nella quale ho lasciato un vero e proprio pezzo di cuore, e ho conosciuto tante persone meravigliose che porto sempre nel cuore. È stata una vera e propria storia d’amore, la mia con la musica. Una storia d’amore e odio.
È interessante questa dicotomia. Perché parli d’amore e odio?
Perché ho provato tanto, tantissimo amore per una cosa che da parte sua mi ha anche fatto tanto soffrire, e spesso ho pensato di doverla abbandonare. Con la musica ho litigato più e più volte, e ho pensato di doverla abbandonare.
Come si descriverebbe “Vittorio Copioso – Il musicista”?
Lo sai, questa domanda è proprio difficile. La vera risposta è: non lo so. Perché non mi considero per davvero un musicista, almeno adesso. Non vado più a suonare in giro, ho messo da parte la vita “del live”. Anche se mi sto divertendo con le mie produzioni musicali, quelle di altri artisti. Mi sono appassionato alla composizione di musica da film. Insomma, la vita di musicista è molto, molto legata alla vita personale. Sono una persona semplice, cerco di essere modesto, allegro, e porto ciò che sono in quello che faccio. Non riesco a scindere la persona dal musicista, e viceversa.
Ultimamente hai pubblicato diversi videoclip. Ci sono nuovi progetti all’orizzonte?
Niente di definitivo, a dire il vero. Mi sto divertendo a scrivere altra musica, coinvolgendo amici musicisti sparsi in giro per l’Italia. Quando avrò raccolto un buon numero di materiali che mi soddisfino sul serio, produrrò un EP. L’ennesimo, della mia carriera. (Ridiamo, poi proseguono le domande).
Quanti EP hai pubblicato, fino ad ora?
3 EP ufficiali e innumerevoli e randomici singoli.
Negli scorsi anni hai preso parte a diversi progetti in trio, in duo, da solista. C’è una di queste tipologie di formazione che preferisci?
No! (Ridiamo) Nessuna di queste tre è la mia preferita. La mia preferita è quella che avevo con i miei amici, in una band chiamata Garfield Funky Company, eravamo un collettivo musicale e suonavamo molti brani pieni di groove. Mi piace quando si è in tanti, sul palco, a suonare. E tutte le formazioni, in generale, mi sono piaciute perché ho condiviso musica con persone care. Ho suonato con Roberta Cacciapuoti nel duo Croce e Delizia, per il quale ho un amore infinito. Da poco abbiamo pubblicato una nostra versione del brano Passione con un video montato da me. E poi, beh, in trio ho avuto tante soddisfazioni. E per quanto riguarda il suonare da solo, vivo da solo, sto spesso da solo, qualcosa dovrò pur fare per non impazzire!
Hai collaborato con diversi artisti, nel corso degli anni. Ci racconti le esperienze che hai preferito?
Innanzitutto quella col mio trio, il Vittorio Copioso Trio, di base a Perugia, col quale abbiamo suonato e riarrangiato brani scritti da me in chiave hip-hop e jazz. Ci siamo divertiti con la libera improvvisazione, le cose erano spesso estemporanee. E, sempre a Perugia, ho suonato con il Cobres Trio. Eravamo la band resident in un locale in cui facevamo jam sessions. Ho scritto la sigla di Radio Pizza Olanda ed è stato estremamente divertente! Un’altra esperienza è stata quella di suonare con Stefano Di Battista, per un evento molto bello. Abbiamo suonato su una zattera in mezzo al lago. In tutto eravamo 12 musicisti, e come special guest Stefano Di Battista ha suonato qualche pezzo con noi, è stato veramente un onore. Inoltre, lo scorso luglio, ho partecipato ad un festival bellissimo chiamato “Il cantiere”. Abbiamo suonato ad Arezzo, e ho musicato una scena di un film. È stata una grandissima e bellissima esperienza, in collaborazione col conservatorio di Rovigo. Si tratta di un festival di lunga data, sono 45 anni che si ripete, e prendervi parte è stato veramente indimenticabile.
Ce n’è stata qualcuna che invece avresti evitato, e magari, tornando indietro non ripeteresti?
No, in realtà no. Ogni esperienza serve. Magari, qualcosa la modificherei, ma fondamentalmente rifarei tutto.
Com’è la tua vita tra composizione ed insegnamento?
Adesso, l’insegnamento della musica e del potenziamento musicale nella scuola secondaria di primo grado è diventato il mio lavoro principale. Mentre la composizione è il mio momento di sperimentazione, divertimento. Mando materiale a persone, amici.
Da qualche anno, sappiamo che hai fondato una tua etichetta indipendente, la Beat House Label. Ce ne vuoi parlare?
Trovare un’etichetta al giorno d’oggi è una cosa veramente complessa. Quando vuoi pubblicare qualcosa, qualcosa di tuo, vai incontro a tantissime problematiche. Quindi Beat House è il mio ponte personale tramite cui arrivare a tutte le piattaforme. Non si tratta solo di un’etichetta privata, usata solo da me, ma tramite Beat House lavoro nel mondo della post-produzione per altri artisti, per esempio la Drama SMP, composta da me e Federico Pedini, tramite cui scriviamo musica per film, e curiamo missaggio ed editing del materiale da noi prodotto. Quindi anche la sincronizzazione sotto le immagini, e via dicendo.
Quindi prendete in considerazione anche altri artisti, oltre alla vostra cerchia strettamente intima?
Sì, tutti quelli che hanno bisogno di missaggio, mastering, produzione musicale. Si predilige il mondo “groovy”, musica rap, hip-hop, che abbia sapori afro-cubani. Per ora è un’etichetta piccola, ma dà tante soddisfazioni. Io la chiamo “etichetta itinerante”, perché si sposta insieme a me. Mi piacerebbe, anche per il futuro, mantenere tutto più o meno online.
Che cosa bolle in pentola per i prossimi mesi?
Presto, spero, pubblicherò la mia tesi. Stiamo aspettando il momento giusto per pubblicarla, ed è la cosa più importante che aspetto. Per il resto, sono aperto a quello che la vita mi metterà davanti. Non mi spaventano i cambiamenti!
Vittorio, la nostra intervista è finita. Grazie per esserti raccontato, e grazie per aver condiviso con noi la tua musica e i tuoi progetti.
Dai parchi olandesi a un cambio di direzione. Da un duo ad una band. Da Utrecht ad un asse Roma-Den Haag. La storia dei MET si dirama tra due Paesi, parte dalla storia di due ragazzi che si conoscono ad Utrecht e adesso si preparano al lancio di un lavoro curato durante i mesi della pandemia. Ecco a voi la nostra intervista ad Alessandro e Marco dei MET.
Alessandro, Marco, le mie interviste iniziano sempre allo stesso modo. E quindi anche a voi chiederò innanzitutto: Come state, ragazzi?
Marco: Vai Alessandro, è il tuo turno! (Ride)
Alessandro: A posto!
Marco: Eh, io pure! Sto bene, grazie! (Ridono entrambi) Dal mio punto di vista, quest’anno l’ho preso in modo più o meno positivo. Ho preso delle decisioni che sono state distrutte, e i miei piani non sono andati come dovevano, ma nonostante tutto mi sono ricreato delle alternative. Ho deciso di ritornare in Italia, perché mi ero trasferito in Olanda per suonare, però poi il Covid ha limitato le mie possibilità, anche di conoscere altri musicisti. Allungare la mia esperienza lì senza poter fare quello che volevo, non aveva più senso. E quindi sono di nuovo qui.
Come vi siete conosciuti?
Alessandro: Al Conservatorio di Utrecht, in Erasmus, seguivamo lo stesso corso di Poliritmia avanzata, in cui eravamo scarsi entrambi. E questa è una cosa divertente perché tuttora, quando scriviamo dei brani, ci troviamo a riprendere quelle cose e ci sembra di essere ancora lì. Ma il nostro progetto non è nato subito. Il progetto è nato un annetto dopo. Marco, dopo essere tornato a Roma dall’Erasmus, è tornato a Den Haag dove abitavo io, per chiedermi delle informazioni generali sulla vita lì e si è creata questa alchimia straordinaria che ci ha portato a questo progetto.
Da cosa nasce il nome “Met”?
Marco: Perché noi ci siamo “Met”! (Ride)
Alessandro: Ci sono diverse interpretazioni, a dire la verità! In olandese, “met” significa “con”. Quindi è anche il simbolo che c’è nella nostra collaborazione. Alessandro met Marco, o Marco met Alessandro. Poi lo prendi in italiano, e può diventare una di quelle sigle che può rimanerti in testa.
Marco: La cosa bella è che però nessuno capisce il nome. La nostra pagina si chiama “Met Den Haag”, quindi, quando lo diciamo in Italia, nessuno lo capisce, e neanche in Olanda c’è stata questa comprensione immediata, perché neppure gli olandesi capivano quello che dicevamo. (Ridono entrambi)
Com’è stato essere artisti italiani di stanza all’estero, come avete percepito la comunicabilità dei vostri messaggi? Voi avete cantato in italiano, nei Paesi Bassi, cominciavate a pensare di tradurre i vostri brani, però il vostro repertorio è per lo più in italiano. Vi siete sentiti capiti?
Alessandro: Questa è la versione mia personale, e penso che in media all’olandese piaccia il suono della lingua italiana. Mi è capitato spesso di parlare con gente che mi ha detto di non essere tanto interessata alle nostre parole, quanto all’atmosfera della canzone. Ma per me è stato lo stesso, quando ascoltavo i pezzi in inglese, e non capivo cosa dicevano i testi, ma mi piaceva l’atmosfera di quei brani. E per quanto riguarda noi ho percepito lo stesso, non mi sono tanto posto il problema della comunicabilità a dire il vero.
Marco: Per me non è stato lo stesso. Io non l’ho vissuta così, la cosa che dice Alessandro la condivido. Quando mi rendevo conto che il mio messaggio non veniva capito, o comunque veniva trascurato, o comunque gli ascoltatori si affidavano solo alle espressioni di Alessandro rispetto alle parole, mi dava l’impressione di comunicare solo attraverso la mimica. Un po’ l’ho sofferta questa cosa. Io difendo molto le parole, perché le parole hanno un significato.
Alessandro: Vorrei aggiungere una cosa. Quando ho iniziato a scrivere sono diventato più consapevole delle parole. Quando il pezzo diventa qualcosa di più personale è quando nasce una frase che mi lega a lui. Il testo dà senso a tutto, a meno che non sia solo strumentale.
Marco: Allora adesso faccio io una domanda ad Alessandro. Come ti senti quando ti dicono che non hanno capito cosa volevi dire nella canzone? Da compositore, non ti dà un po’ fastidio?
Alessandro: Beh, diciamo che però il pezzo non arriverà comunque nella sua totalità. Per esempio, ci sono state delle scelte compositive che all’ascoltatore medio non arriveranno. Ogni persona in base al proprio bagaglio e cultura percepirà una parte di quello che abbiamo fatto. Però quello che a me importa è trasmettere qualcosa dal punto di vista emotivo. L’impatto emotivo è quello che rimane.
Qual è l’accoglienza che il pubblico vi ha riservato, quando vi siete esibiti?
Marco: Dare una risposta a questa domanda sarebbe un po’ precoce. È vero, abbiamo suonato nei parchi olandesi, e abbiamo cercato di diffondere la nostra musica ma è stato più uno studio per noi, per controllare le reazioni delle persone, e lavorare sul nostro progetto. Le persone che sono venute si sono divertite. Abbiamo cercato di coinvolgere quante più persone possibile.
Come nasce un vostro pezzo?
Alessandro: La parola d’ordine è discordanza. Io e Marco ogni tanto non siamo d’accordo su qualcosa, la vediamo in maniera diversa, ma una cosa che abbiamo in comune è che siamo sempre disposti ad ascoltare l’altro e metterci in discussione. Abbiamo fatto confluire le nostre energie discordanti in risultati positivi. In me e Marco vedo proprio queste energie che si scontrano ma sono sempre in movimento, e hanno una grandissima forza creatrice.
Marco: Beh, la discordanza è un po’ un’antitesi del nome del nostro gruppo, e funziona molto. “Con”, sono cose che contrastano e convergono.
Alessandro: Abbiamo lavorato spesso individualmente, ed è capitato che uno dei due iniziasse con un’idea poi sviluppata dall’altro. Abbiamo scritto con idee dell’uno fluite nell’idea dell’altro. È per questo che alcuni pezzi hanno degli sviluppi inaspettati, perché vanno a mettere insieme idee diverse. È una cosa molto positiva, che rende l’ascolto più inaspettato.
Avete mai suonato in Italia?
Marco: Abbiamo registrato l’album in Italia, e speriamo presto di poter suonare anche in concerti nostri. Stiamo aspettando che la situazione si allenti un po’.
Alessandro: io spero davvero di poter fare presto delle serate in Italia.
A quali artisti vi ispirate, in particolare?
Alessandro: la musica ascoltata nel passato influenza sempre. Si ascoltano talmente tante cose che una risposta secca sarebbe difficile. Nel panorama italiano ho scoperto nel tempo Daniele Silvestri, o anche Caparezza. Conoscevo solo le loro hit all’inizio, però poi approfondendo l’ascolto ho trovato altri brani che mi hanno permesso di apprezzare anche la loro evoluzione come artisti.
Marco: Io non ho proprio una risposta per questa domanda. Mi sento un po’ in imbarazzo, perché di solito quando ascolto musica cerco sempre di studiarci sopra, trovare nuove idee, analizzare. Prendo ispirazione da più artisti, più gruppi.
Stati d’animo è il vostro ultimo lavoro. Ci raccontate un po’ com’è nata l’idea?
Alessandro: Nel corso dei primi tre-quattro pezzi, Marco ha avuto l’illuminazione. Ha detto: sembra che stiamo descrivendo diversi stati d’animo. Cosa che al momento io non avevo realizzato. Per me ogni pezzo era un pezzo nuovo, senza pensare ad un filo conduttore.
Marco: Stati d’animo, cosa significa? Beh, bisogna vederlo anche in modo simbolico. Il filo conduttore che porta da un’emozione all’altra è il cambio di stato. In qualche modo, poteva anche trasmettere la nostra storia, di immigrati che avevano cambiato Stato. La posizione geografica, il cambio di latitudine diventa in modo figurativo un mezzo per parlare delle emozioni umane. Dalla rabbia ci si può trasferire in altre emozioni, come la tristezza, la nostalgia, e questo si può fare. Questo è quello che abbiamo provato a fare.
“Stati D’animo” infatti, è il titolo dell’album di 8 tracce sul quale abbiamo lavorato.
Poi è successo qualcosa, durante questi mesi. Mentre eravamo lì a comporre i brani, abbiamo iniziato a pensare concretamente ad una formazione diversa. Abbiamo sempre voluto avere una band, ma per questioni pratiche abbiamo deciso all’inizio di restare un duo. Poi però nel mese di agosto abbiamo deciso di ritrovarci in uno studio di registrazione romano Undercurrent Recording Studio, al fianco di Daniele Carbonelli, bassista e fonico, e Pierluigi Picchi, batterista, per tutti quei brani che avevano una matrice rock ed erano destinati ad essere suonati da un gruppo di musicisti fatti di note ed ossa.
Scivoliamo sul viale dei ricordi. Qual è il vostro ricordo più bello legato alla musica?
Alessandro: Riformulo leggermente la domanda e condivido il primo ricordo che mi è venuto in mente. E non so se è il più bello, ma è il primo che mi è venuto in mente. C’è stata una gara di karaoke che ho fatto quando avevo 18 anni e ho cantato Time is running out dei Muse. Quando ho finito il pezzo ho avuto questo grandissimo applauso del pubblico che è stato anche il mio primo applauso. L’energia del pezzo, l’adrenalina di cantarlo, quell’applauso alla fine mi hanno dato un’emozione che quella notte non mi ha lasciato dormire.
Marco: Potrei condividere anch’io il primo ricordo che ho della musica, perché è stata un’emozione che mi ha colpito parecchio. Mi ricordo che quando avevo più o meno cinque anni ho passato qualche pomeriggio a suonare pianoforte a casa di una mia zia. E suonavo note random. Ero un bambino che si annoiava, non sapevo cosa fare, e iniziai a suonare delle note che mi colpivano. Ogni tasto premuto dal mio dito aveva un impatto molto forte. Le note erano connesse alle mie emozioni. E mi ricordo che riuscivo a riconoscere quello che stavo suonando, cercavo di imitare la pubblicità della Barilla. (Ridiamo) Per anni non ho suonato, ho ripreso molto tempo dopo, e quando ho ripreso in mano la chitarra ho ritrovato quella connessione con le note.
Invece se doveste scegliere il ricordo più brutto, o più triste, quale sarebbe?
Marco: Io ho un ricordo bruttissimo, uno dei ricordi più brutti che ho. Una volta ero a lezione, dovevo fare un concerto con una big band, e dovevo dividere trenta pezzi con un altro chitarrista. Avevo studiato solo i miei pezzi. Studiai tutta la settimana, non dormii nemmeno. E quando arrivai a quella lezione, l’altro chitarrista non venne. E io mi ritrovai con tutti i pezzi da fare, ma non ero preparato, mi vergognavo tantissimo! L’insegnante si incazzò con me, fu uno dei giorni più brutti della mia vita da musicista. Però a parte quello, non mi lamento! (Ride)
Alessandro: mi viene in mente una cosa simile. Una mia amica mi disse che un gruppo di salsa cercava un pianista. E così mi sono ritrovato lì con le parti, che non avevo studiato, e sentivo le loro aspettative su di me che non riuscivo a sostenere perché non conoscevo i pezzi. Però poi ho imparato tutti i pezzi, e dopo un po’ sono andato abbastanza bene. Loro hanno aspettato che imparassi tutto il repertorio, senza pressioni. È una storia a lieto fine!
C’è qualcosa che rifareste assolutamente del vostro percorso?
Alessandro: Credo che tornerei al centro musicale di Mogol in Umbria. È stata un’esperienza positiva, di confronto con altri musicisti. La prima volta lo feci nel 2012, avevo vinto una borsa di studio mentre ero al conservatorio. Ci sono ritornato l’anno scorso e stavo pensando di tornarci anche l’anno prossimo, è stata un’esperienza davvero positiva e formativa.
Marco: Io sceglierei ancora la musica, seguirei la mia intuizione e rifarei il conservatorio. Senza cambiare idea.
E qualcosa che invece non rifareste per nulla al mondo?
Alessandro: Forse gli ultimi esami al conservatorio. Però non posso davvero rispondere a questa domanda. Perché seppure quegli ultimi esami sono stati un mezzo insuccesso, lì ho conosciuto Marco, e da lì ora ci ritroviamo a suonare insieme per questo progetto. Gli errori ti insegnano sempre qualcosa.
Marco: Ce l’ho un rimpianto, ma c’entra relativamente con la musica. Non manderei in giro i curriculum con un indirizzo olandese, perché poi sono ritornato in Italia e adesso tutte le domande sono incasinate!
Ci salutiamo promettendoci prima o poi un incontro dal vivo e non mediato da Skype, e dai soliti problemi tecnici, immancabili, sempre in agguato in questa nuova epoca delle interviste-covid. Saluto Marco che si trova tra le strade di Roma, Alessandro che è a Den Haag, e presto speriamo davvero di poterli ascoltare tra il pubblico di un loro nuovo concerto.
Quando abbiamo scelto di dare vita a Rising Sounds, nei mesi scorsi, l’abbiamo fatto per un semplice motivo: ognuna di noi è fermamente convinta che la musica possa continuare a vivere, a dispetto delle molte (e, purtroppo, veritiere) teorie che la vorrebbero ormai sul viale del tramonto.
Qualcuno potrebbe obiettarci che credere ancora nella musica nuova sarebbe un po’ troppo idealista, ma noi risponderemmo che senza ideali, l’esistenza su questo pianeta si ridurrebbe alla sopportazione passiva dei giorni che si susseguono. Rising Sounds, da parte nostra, era uno spazio dedicato esclusivamente alle idee più fresche, più nuove, ai sogni di chi, come noi, nonostante tutto ci crede ancora.
Perché questa premessa lunga e forse poco catchy? Beh, perché per il primo numero di Rising Sounds di questa nuova stagione abbiamo incontrato qualcuno che come noi ci crede ancora, e che lotta per tenere in vita la musica anche in una realtà abbastanza complessa come quella del Sud dell’Italia.
Roberta Cacciapuoti è la direttrice artistica del Club 33 giri, un collettivo giovane di Santa Maria Capua Vetere, nella provincia di Caserta, che si impegna a tenere vive le arti e il senso di comunità da esse generato. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere, chiedendole di raccontarci qualcosa sul loro progetto, che diventa anche culla della musica emergente.
Ciao Roberta, la mia domanda di rito, prima di cominciare ogni intervista è: Come stai?
Mah, guarda, ieri sera ho mangiato un po’ pesante… (Ridiamo, rompendo il ghiaccio all’inizio di ogni incontro così, da botta e risposta.) Fortunatamente sto bene, anche se è un periodo strano, molto particolare. La cosa importante in questa fase è riuscire ancora a fare le cose che ci piacciono.
Questo numero di Rising Sounds è leggermente diverso dagli altri. Perché oggi il nostro protagonista non è un singolo gruppo o artista emergente, ma una culla di artisti emergenti. Com’è nata l’idea del Club 33 giri?
Ti risponderò a questa domanda, anche se quando il Club è nato, io non c’ero. L’associazione è stata fondata nel 2012. Molto banalmente, si voleva creare uno spazio che in quel momento mancava ai ragazzi di Santa Maria, e di Caserta in generale. C’era l’esigenza di avere un posto nel quale poter suonare e far suonare i gruppi dei nostri amici, o guardare film, organizzare piccoli eventi, scambiare opinioni e farci quattro chiacchiere. L’idea era quella di creare uno spazio di condivisione, aggregazione, di cui sentivamo davvero bisogno nel nostro territorio. Purtroppo, la nostra terra, soprattutto dal punto di vista culturale, non ha mai offerto tantissimo, soprattutto ai giovani. E quindi, molto semplicemente, invece di cercare questo spazio fuori dalla città, si è creato al suo interno.
È proprio il caso di dire Homo Faber.
Sì, assolutamente. È chiaro che lo spazio è stato creato in base alle nostre esigenze, e negli anni c’è stato un grande ricambio all’interno del collettivo. Molti dei ragazzi che hanno fondato il club, chi per volontà, chi per necessità, sono andati fuori, cosa che ha comportato il subentro di nuove persone. Però quello che ho notato, che notiamo in generale, è che l’associazione resta sempre e comunque un punto di riferimento. Chi ritorna a casa, ritorna al Club. Non solo dal punto di vista “culturale”, considerando che non abbiamo mai avuto la pretesa di voler fare cultura, ma di condivisione. È quello che abbiamo voluto fare, sopra ogni cosa. l’associazione è diventata un punto di riferimento per la musica, per l’arte, per il cinema, ma soprattutto umanamente. È quella la parte più importante per noi.
Adesso quante persone collaborano alla gestione del Club?
Il direttivo è composto da più di 20 persone. E chiaramente ci sono i collaboratori che si aggiungono durante il festival, e in quel periodo arriviamo anche alla cinquantina di persone.
Wow. Bisognerà mettere d’accordo diverse teste, immagino.
Sì, ma anche quello è il bello dell’associazione. Secondo me lo scambio di idee e la diversità che c’è tra noi sono i nostri punti di forza. Inevitabilmente, essere tanti ci arricchisce per forza di cose.
Più o meno, quanti artisti avete accolto sul vostro palco?
Abbiamo organizzato circa 200 concerti dall’inizio. In otto anni, si parla di almeno 150 artisti, tantissimi. Chiaramente, per forza di cose, la maggior parte degli artisti che abbiamo ospitato proveniva dalla Campania. Però, negli anni abbiamo provato anche a fare un po’ di scouting a livello nazionale, ospitando artisti anche provenienti da altre regioni. Sono stati delle scommesse, ma è questo il bello di avere un’associazione libera. Non dovendo fare lucro, noi possiamo utilizzare i nostri fondi anche per scommettere sugli artisti, provando a fare qualcosa di nuovo. Quando abbiamo trovato artisti che ci piacevano, abbiamo provato ad organizzare concerti. E il più delle volte questi concerti si sono rivelati delle sommesse vinte, il pubblico ha risposto molto bene.
Come funziona, quindi, la vostra selezione? Gli artisti si propongono o siete sempre voi a contattarli?
Un primo filtro lo faccio in prima persona. Arrivano proposte da agenzie o dagli artisti stessi, ed io, che mi occupo della direzione artistica, faccio una “scrematura”, tra virgolette, sempre basandomi un po’ sui nostri gusti e su quelli del pubblico che, ormai, abbiamo imparato a conoscere. Quello che pensiamo possa piacere e quello che riteniamo più originale, promettente. Dopodiché, presento una rosa di artisti al direttivo e da lì decidiamo insieme i passi successivi, anche in base alle possibilità economiche del momento. Tutte le decisioni che prendiamo, come associazioni, le prendiamo collettivamente.
La vostra è un’organizzazione molto particolare. Non c’è un leader che ha l’ultima parola. Sono davvero decisioni prese in comune, è notevole.
Sì, aiuta anche il fatto che ognuno di noi ha le proprie competenze e professionalità. Negli anni, io per esempio mi sono specializzata in questo ambito e concretamente faccio la direzione artistica, però le decisioni alla fine le prendiamo insieme. In ogni ambito è così, per la grafica, per il cinema, ognuno ha un suo ruolo all’interno del collettivo ma ci interfacciamo sempre.
Probabilmente, questa vostra diversità all’interno del direttivo può aver rappresentato la vostra colonna. Il Club ha una storia lunga, altre realtà del territorio non sono sopravvissute tanto quanto la vostra.
Sì, considerando che all’inizio del Club eravamo più liberi, e adesso gestire l’associazione diventa più complesso. Ma nonostante questo, nonostante anche la distanza di alcuni membri che seguono le nostre vicende da lontano, lo zoccolo duro è stata la nostra diversità. E un’altra cosa che ci ha tenuto in vita è stata la voglia di mantenere vivo il club. Perderlo ci avrebbe fatto stare male. Volevamo farlo, e l’abbiamo fatto. Anche se non è stato sempre facile.
Mi chiedevo proprio questo. Quant’è stato difficile mantenere alta la voglia di fare?
Credo sia inevitabile che ogni passione, come ogni amore, richieda sforzi e sacrifici. In otto anni abbiamo visto di tutto e superato di tutto, e non è stato facile. Abbiamo avuto alti e bassi, ma alla fine abbiamo trovato sempre una motivazione per continuare, andare avanti. Volevamo conservare il nostro posto sicuro. Un luogo nostro. In cui potevamo esprimerci, e avere uno spazio in cui trovare persone che ti supportano, ti ascoltano, e questo ci ha dato la spinta per proseguire. Il nostro obiettivo è stato sempre molto chiaro, non volevamo fare lucro, ma avere un palco sul quale fare esprimere noi e chi ruota attorno alla nostra associazione. Abbiamo fatto rete, collaborato con molte realtà del territorio come il Teatro Civico, la Libreria Spartaco di Santa Maria. Nel nostro territorio, se non si fa rete non si va avanti. Noi abbiamo sempre cercato di collaborare con il più alto numero di persone, e proviamo a fare calendari che non vadano in conflitto tra loro.
Nell’ultimo anno, anche grazie al Lockdown, ironia della sorte, siamo entrati nella rete di Keep On, un’associazione di categoria che si occupa dei Live Club e dei festival. Tramite i ragazzi di Keep On abbiamo avuto la possibilità di interfacciarci con realtà come la nostra ma provenienti da tutti i posti di Italia, da Torino a Palermo. Durante il Lockdown abbiamo organizzato tutti insieme dirette streaming, e tutti i giorni per mezz’ora abbiamo avuto una diretta musicale. Tutto questo grazie a Keep On che ha messo in piedi questa iniziativa.
Ho notato che in questo periodo il Club ha aperto una raccolta fondi. Ti va di parlarcene un po’?
Erano un po’ di anni che avevamo in mente di dare il via ad una campagna di crowfunding, soprattutto per finanziare il nostro festival, La Musica Può Fare. Però, alla fine, non abbiamo mai avuto davvero bisogno di farla perché il festival è riuscito sempre a sostenersi da sé. Ma stavolta, dopo la chiusura, ci siamo visti un po’ costretti. Siamo chiusi da marzo e concretamente non sapremo quando potremo riaprire. Bisognerà monitorare la situazione, e vedere quali saranno le direttive istituzionali. Chiaramente, però, ci sono delle spese che restano e lo scopo della campagna è per l’appunto finanziare queste spese e le attività di ripartenza. Speriamo di riuscire a raggiungere quest’obiettivo tramite le donazioni. Produzioni Dal Basso ci è stata molto vicina, tramite Keep On. C’è un tutor che ci ha seguito, dato consigli, e al momento la campagna è quasi a metà. Non sappiamo se riusciremo a raggiungere la cifra. Abbiamo volutamente puntato in alto, per un’ulteriore scommessa. Il motto della campagna è “Play Together”, insieme è più bello, per noi. E il sottotitolo è “Teniamo accesa la musica”. Abbiamo sentito tantissimo la mancanza dei concerti quest’anno. Io vado a circa cento concerti all’anno, e perderli tutti è stato un trauma. Vogliamo riaccendere questi palchi.
Cosa avete in programma, quindi, per il prossimo futuro?
Per il momento vogliamo recuperare i live che abbiamo dovuto annullare a marzo e aprile. Per dirtene alcuni, quello di Katres insieme a Micaela Tempesta, due cantautrici campane bravissime, o quello dei Sex Pizzul, una band fiorentina che è tra le nostre più recenti scoperte. Tutta una serie di live in programma che sono saltati, e poi ricominceremo a programmare con il nuovo.
Parliamo del vostro festival, La Musica Può Fare. Quest’anno avete dovuto rinunciare anche a quello. Emotivamente com’è stato?
Non fare il festival ha comportato un lutto emotivo. Dopo otto anni, non farlo è stato particolarmente triste. Oltre che dispiacere per il fatto che una parte del ricavato del festival è sempre stata destinata a una realtà sociale e solidale, mentre un’altra parte del ricavato copriva le spese di gestione durante i mesi di chiusura estiva. Chiaramente, non poter fare il festival ha comportato l’impossibilità di sostenere alcune spese. Siamo estremamente grati per l’affetto e il sostegno che stiamo ricevendo in questo periodo, attraverso la campagna. L’affetto non è mai scontato, ed è sempre bello riceverlo. Negli anni tantissimi artisti hanno voluto suonato da noi, hanno presentato per la prima volta dei dischi da noi, hanno condiviso delle cose bellissime. Si è creata una rete d’amore.
E adesso ti chiedo di raccontarmi l’episodio più brutto capitato al Club.
Un paio di volte ci siamo allagati. Fortunatamente questa cosa ora non succede più. Quando però succedeva, era davvero un disastro. Dovevamo rimontare il palco, asciugare le pedane di legno. Qualche volta abbiamo dovuto buttare roba non recuperabile. Questi ricordi sono abbastanza traumatici.
E invece qual è stata la cosa più bella mai accaduta?
Quando la serata va bene e le persone si divertono, è sempre bellissimo. Ma sicuramente uno dei ricordi più belli che rimane nella storia dell’associazione è il primo concerto di Santi, Poeti e Navigatori, che hanno organizzato Joseph Foll, Blindur e Lelio Morra, tre amici fantastici dell’associazione. Fu un concerto organizzato ad hoc per il club, mai più ripetuto. È uno dei ricordi più belli. Una festa, ci siamo divertiti tantissimo. C’erano tutti gli amici, persone da fuori, un concerto bellissimo.
Ti chiedo una cosa leggermente provocatoria. Avete organizzato molti concerti e conosciuto tantissime persone. Vi siete mai pentiti di aver collaborato con qualcuno?
In realtà pentiti no. Inevitabilmente, musicisti ed artisti sono esseri umani. Quindi, come tutti, può esserci alchimia oppure no. Ogni esperienza è stata fonte di ricchezza e ci ha insegnato qualcosa per la volta successiva. Negli anni l’associazione ha stretto rapporti con alcuni artisti più che con altri, ma per inclinazioni naturali. La maggior parte dei musicisti con cui abbiamo collaborato è rimasta in buoni rapporti con noi.
Beh, Roberta, la nostra intervista è finita e sono davvero felice, è stato bellissimo parlare con te. Quello che fate è davvero incredibile, e vedere che combattete per le cose importanti e fare vostri i sogni degli altri ci riempie di orgoglio. Cosa vuoi dire per concludere questa chiacchierata?
Voglio innanzitutto ringraziare tutte le persone che ci sostengono da anni e ci supportano, e speriamo di poter allargare ancora di più la nostra famiglia. Chiunque si voglia avvicinare ad una realtà come la nostra, è sempre il benvenuto.
Rising Sounds è la rubrica di SLQS dedicata agli artisti emergenti!
Daniele Isola è un cantautore milanese che circa sei anni fa pubblicò il suo primo singolo. Oggi lavora al suo terzo album e da poco è uscito il videoclip del suo ultimo singolo, Samurai.
Ci siamo incontrati (senza mascherina, ma su Skype) e abbiamo chiacchierato un po’. Ecco a voi la nuova fiammante intervista di Smells Like Queen Spirit per la rubrica Rising Sounds.
Ciao Daniele. Come stai e come hai vissuto questo periodo un po’ strano?
Bene, dai. Per ora! (Ride) In realtà, a parte un primo momento in cui sono rimasto in casa per forza di cose, ho ripreso a lavorare in studio, così dopo qualche settimana ho più o meno ripreso un ritmo abbastanza normale. Ovviamente, le dinamiche in casa sono cambiate, ti ritrovi chiuso dentro anche durante il tempo libero. Io vivo a Milano, e mi piace molto questa città, ma quando non hai più tutto quello che Milano ti offre rimane poco, e quindi ti ritrovi a vivere in un contesto, quello di casa tua, che neppure offre granché. Anche perché magari non molti a Milano hanno un terrazzo grande o comunque spazi giganti in casa in cui poter vivere. Mi sono trovato a fare delle valutazioni su come e dove vivere, rispetto a quello che potrà succedere da qui in avanti, che è abbastanza un’incognita.
Si potrebbe dire, quindi, che questa quarantena ti ha portato a fare una rivalutazione del passato e del futuro?
Sì, assolutamente sì.
Parliamo un po’ di te: com’è nato il desiderio di cantare e scrivere pezzi tuoi?
Beh, in realtà da subito! Da piccolo, quando ho iniziato a mettere le mani su pianoforte e chitarra, in maniera molto ingenua, mi veniva da riprodurre delle cose mie piuttosto che le proposte degli insegnanti. E quindi anche da bambino mi piaceva trasferire le mie emozioni e quello che pensavo in musica, e questa cosa poi nel tempo ha preso una sua forma di espressione che continuo a portare avanti.
Quindi si può dire che il tuo sia stato un percorso molto naturale.
Sì, a molti magari viene naturale riprodurre canzoni degli altri, anche in maniera fedele, e la riproduzione diventa il loro percorso. Invece per me era diverso, mi veniva più naturale scrivere qualcosa di mio.
Chi sono i tuoi artisti di riferimento, sia italiani che internazionali?
Essendo il mio percorso abbastanza lungo, gli artisti di riferimento negli anni sono cambiati. Per fare dei nomi nell’ambito italiano, sicuramente Vasco Rossi, Battisti, Daniele Silvestri, Bersani, Cremonini. Ma in realtà cerco sempre di ascoltare tante cose diverse, sono completamente fan di tutto quello che fa Mike Patton! Uno degli ultimi concerti che ho visto è stato proprio il suo. Al di là dei riferimenti che magari si rispecchiano di più nel genere che poi faccio, credo e spero che tutta la curiosità che ho nell’ascoltare cose diverse in qualche modo si rifletta anche nella mia musica.
Oltre ad avere un grande panorama di artisti di riferimento, quindi, ci sono anche diversi generi musicali a cui ti ispiri?
Sì, e questa era ed è tuttora una mia difficoltà. A me piace che il brano prenda un suo percorso indipendentemente dal genere. E questo confonde l’ascoltatore che invece, magari, ha bisogno di un’identità più precisa. Quindi lavoro anche per evitare di essere troppo dispersivo. Anche se a me piacerebbe poter sperimentare e fare cose diverse, mi rendo conto che non è sempre semplice da parte di chi ascolta seguirti in un percorso troppo vario.
Ti dirò, trovo che sia molto bello e molto interessante lasciare spazio alla creatività.
Certo, però sono cose che devi anche conquistarti nel tempo. Prima ho parlato di Cremonini, ma per esempio anche Jovanotti, sono nomi del panorama italiano che possono permettersi di fare un pezzo molto classico, da pianoforte e voce, ed arrivare ad uno elettronico che fa ballare, tuttavia hanno costruito una credibilità che gli ha consentito di avere al seguito un pubblico disposto a stargli dietro in questi loro salti.
È comunque molto bella da parte tua questa volontà di conciliare l’attenzione degli ascoltatori con la tua identità di artista. Non è molto semplice, ma è importante che ci sia anche questo venirsi incontro.
Così come poi è bello anche sperimentare, fare cose diverse.
Ho alcune cose da chiederti riguardo alla tua musica. Da Eremita, il tuo primo singolo uscito sei anni fa, all’ultimo, Samurai, quant’è cambiato Daniele Isola-cantautore?
È uscito un bel po’ di tempo fa! (Ride) Cos’era, il 2013? Come cantautore sono cambiato abbastanza. Diciamo che Eremita è stato il primo passo di una mia proposta al pubblico cercando di strutturare un progetto. È stato proprio il primo seme, l’inizio. Non avevo ben chiaro dove mi avrebbe portato tutto questo, ma soprattutto mi ci è voluto del tempo. Nel 2013 ho preso coscienza del fatto che volevo costruire un progetto. Anche Samurai, a modo suo, è una ripartenza. Eremita e Samurai sono legate, in qualche modo. Tra l’altro, non ci avevo pensato, ma si potrebbe fare un parallelo tra le figure dell’eremita e del samurai, che hanno aspetti simili, perlomeno nella proposta. Ora mi è un po’ più chiaro dove sto andando, anche se poi ogni volta che scrivo o produco, quello che mi aiuta è l’esperienza fatta, ma le idee chiare e la precisione della direzione finale non ci sono mai.
È stato facile trovare spazio nel mercato discografico italiano? Com’è stato il tuo percorso?
Innanzitutto, bisognerebbe vedere se esiste ancora un mercato discografico italiano!
Bella risposta.
Partiamo dal presupposto che di musica ce n’è tantissima e la gente ha bisogno di musica. Chiaramente, quindi, un mercato a cui rivolgersi c’è. Però, parlando di mercato discografico nello specifico, di dischi di repertorio ormai se ne fanno pochi. Anche i pezzi che funzionano non sono tanti, almeno quelli che vanno avanti negli anni. Si può parlare più di cose stagionali, e passata la stagione arriva il pezzo nuovo e va avanti così. Per cui io faccio tendenzialmente quello che più mi rappresenta, e che esprima le mie emozioni, senza pensare troppo allo spazio che posso ricavare nel mercato. Nel tempo, ho avuto la fortuna di trovare un’etichetta che per ben due dischi mi ha seguito e mi sta seguendo, e mi aiuta molto, però ecco, le cose che funzionano secondo me non pensano mai troppo al mercato a cui si rivolgono. Le cose più importanti sono il progetto ed il lavoro che ci sono dietro. Per fare un esempio, una delle ultime cose che ha funzionato tantissimo in questi anni è stata la produzione di Calcutta. Chi prima di lui avrebbe mai pensato ad una riuscita così grande di un progetto simile?
Verissimo! Abbiamo già parlato di Eremita e Samurai, ma tra i tuoi pezzi, tutti, ce n’è qualcuno che preferisci, o li ami tutti allo stesso modo?
Sono tutti figli della stessa mamma, ma sicuramente c’è un pezzo del mio primo disco che s’intitola Vertigine, che è ancora il pezzo con cui chiudiamo sempre i live. È una canzone che piace di più quando la suono nella versione chitarra e voce, ma nella mia testa suona sempre come quella prima registrazione del primo disco, più energica. Quella versione è piaciuta anche di meno, non è stata nemmeno un singolo, non ha avuto una sua vetrina, per così dire, ma è sicuramente un pezzo a cui sono molto legato.
È questo un momento storico nel quale si parla molto dell’inclusione e dell’accettazione di corpi diversi dal canone standard nelle arti visive. La mia domanda è: definiresti anche la scelta di presentare diversi tipi di fisicità femminile nel videoclip di Samurai come espressione di un messaggio bodypositive?
Sì. La scelta di questo videoclip è stata proprio quella di usare tre personaggiche a modo loro fanno un parallelo, dal mio punto di vista, col samurai per l’espressione della forza. La scelta è stata cercata, e molto in linea coi tempi che stiamo vivendo.
Hai mai portato la tua musica fuori dai confini nazionali?
Non c’è mai stata occasione, ma sicuramente è una delle cose che mi piacerebbe fare. Spero che in futuro possa capitare!
C’è qualche città in particolare in cui ti piacerebbe suonare?
Me ne vengono in mente talmente tante che mi trovo costretto a risponderti di no! (Ride) Cantando in italiano magari ti ritrovi a rivolgerti per lo più agli italiani all’estero, ma in generale suonare all’estero indica anche confronti con realtà diverse. Quindi sarebbe molto stimolante.
Di tutta la storia, del tuo percorso, c’è qualcosa che rifaresti, o che non rifaresti?
Dei passi falsi, probabilmente, li avrò commessi, ma fanno tutti parte di un percorso e di dinamiche che mi hanno portato ad un risultato di cui sono contento. Non ho dei crucci su cui mi trovo a rimuginare (Ridiamo entrambi). Per quanto riguarda cose che mi piacerebbe ripetere, ci sono state esperienze live, sul palco, piene di emozioni così belle che vorrei poterle rivivere in futuro durante situazioni simili.
Quali sono i tuoi sogni nel cassetto?
Cercare di riuscire ad avere sempre del tempo per dare sfogo alla mia passione, alle esigenze che ho quando faccio musica. Ma prima di ogni cosa, tornare a suonare dal vivo. Un sogno nel cassetto collettivo. È sicuramente una cosa che mi manca molto.
Hai già dei progetti futuri?
Ho del materiale da cui abbiamo preso Samurai e il prossimo singolo che uscirà a breve, e vorrei aggiungerne altro a cui dare la forma di un disco. Sarà il lavoro dei prossimi mesi, è abbastanza pianificato per quanto possibile. Conto di arrivare all’autunno con la maggior parte del lavoro fatto.
Beh, che dire! In autunno allora ci risentiremo per parlare del nuovo disco?
Volentieri, volentieri. (Ridiamo)
L’intervista è finita! Vuoi dire qualcosa ai tuoi futuri lettori ed ascoltatori?
La caccia ai followers è sempre aperta! (Ridiamo entrambi) Se avete voglia di cercarmi, su Spotify o altro, vi aspetto a braccia aperte!
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Rising Sounds è la rubrica di SLQS dedicata agli artisti emergenti!
Che Saverio D’Andrea fosse un cantautore davvero in gamba lo sapevo già da quando ho ascoltato per la prima volta una sua canzone, nel 2017. Ma solo quando ho avuto la possibilità di intervistarlo mi sono resa conto di trovarmi di fronte a una persona speciale: umile, colto e innamorato del suo mestiere. Nel 2019 è uscito il suo primo disco, Anatomia di una colluttazione, prodotto da Valter Sacripanti per l’etichetta Isola Tobia Label. Si tratta di un lavoro di gestazione durato anni, pianificato e vissuto momento per momento. Un disco d’esordio che esprime appieno la personalità trascinante del musicista campano e in cui potrete ritrovare persino voi stessi.
Nel 1996 eri in quarta elementare e hai scritto la tua prima canzone. Eh si! Mi pare di ricordare che il titolo fosse “L’amore sotto la pioggia”. Tuttora conservo dei resti di quelle prime canzoni, filastrocche e poesie, ho iniziato davvero prestissimo! Mi venivano in mente anche dei motivetti, ma non sapendo come suonarli, registravo tutte le melodie su un walkman. Diciamo che in quella prima fase si trattava di canzoni che stavano perlopiù nella mia testa.
Insomma sei stato un bambino prodigio.Non direi! (ride) Non sono stato particolarmente disciplinato nello studio della musica… a 5 anni ho preso le prime lezioni di violino ma dopo 7 anni ho abbandonato; però una cosa che non mi ha mai abbandonato è la scrittura: non ricordo la mia vita senza scrivere canzoni! Per me è il modo più naturale di esprimere quello che ho dentro.
C’è un episodio in particolare che ricordi, legato al momento in cui hai deciso che la musica sarebbe stata la tua strada? Per me la musica è sempre stato un punto fermo, non è mai stata una scelta, fa parte di me. Qualsiasi cosa io faccia è sempre la dimensione nella quale mi esprimo meglio. Nel corso del tempo ho iniziato a lavorare come insegnante e questo mi ha permesso di accumulare delle risorse da investire proprio nella musica; ma anche nel mio lavoro da insegnante non posso farne a meno: quando lavoro con le mie classi attingo sempre dalla musica perché mi viene davvero naturale.
Oltre a essere un musicista sei anche un linguista e dai tuoi testi si percepisce un’ accurata ricerca linguistica nella scelta delle parole. Però tu scrivi anche in inglese e spagnolo. Quale tra queste lingue ti da più soddisfazione? Attualmente scrivo in italiano perché sono arrivato a un tipo di scrittura molto “realista”, nel senso di una scrittura legata ai dettagli della quotidianità e mi viene naturale farlo nella mia lingua madre. In passato ho scritto tanto in inglese e a volte in spagnolo, non solo per me stesso ma anche per alcuni artisti emergenti che me lo hanno chiesto. Ogni lingua contiene in sé un mondo musicale proprio e la sfida è quella di tradurre in musica un testo e una melodia che hanno già un impianto preciso nella lingua di partenza. Gli adattamenti testuali non sono facili, ma a me diverte farli proprio per questo.
Nel 2019 hai pubblicato il tuo primo album, Anatomia di una colluttazione. Come mai la scelta di questo titolo? Il titolo nasce dal desiderio di analizzare bene cosa succede quando finisce una storia d’amore importante. Anatomia è il termine che indica lo studio minuzioso del corpo umano, mentre la colluttazione è uno scontro fisico. Avevo in testa l’idea di uno scontro-incontro tra due persone e la scelta del titolo mi serviva a tradurre l’idea dell’album. La foto di copertina con la mia immagine frammentata invece si comprende solo arrivando alla fine del disco: se nelle prime 9 tracce si racconta dello scontro tra due persone che si amano, in Le poesie sulla sedia, l’ultimo brano dell’album, all’improvviso si capisce che la colluttazione sta avvenendo tra me e me. Solo dopo che abbiamo guardato dentro noi stessi e abbiamo analizzato la situazione nel dettaglio, sono convinto che siamo pronti per iniziare una relazione e finalmente guardare l’altro.
In questi anni hai vinto tantissimi premi e riconoscimenti. Qual è stato quello che ti ha fatto più piacere ricevere? Ho sempre vissuto ogni riconoscimento con grandissima gioia, ma quello che per me ha significato davvero molto è sicuramente il Premio Mia Martini, che ho vinto nel 2013 in qualità di autore della canzone “Il tuo respiro”, interpretata da Rosa Chiodo.
Esiste invece una canzone di qualche autore che quando hai sentito la prima volta hai pensato “avrei voluta scriverla io”? Almeno tu nell’universo. Ero molto piccolo e quando l’ho sentita la prima volta ho pensato: “questa è la canzone più bella del mondo e della storia!” Tutt’oggi penso sia così, perché quando l’ascolti ti colpisce direttamente al cuore! Il segreto di questa canzone è il fatto di sembrare semplice e di grande fruibilità, ma in realtà è molto complessa per composizione e scrittura. Credo sia davvero un pilastro della musica italiana.
Hai avuto modo di formarti con tantissimi professionisti: Francesco Gazzé, Pier Cortese, Bugo, Mogol, Francesco Bianconi, solo per citarne alcuni; chi tra loro ti ha trasmesso di piùe chi invece ha deluso le tue aspettative? Riccardo Senigallia (cantautore romano, fondatore dei Tiromancino) è la persona che mi ha trasmesso di più e che mi ha dato tantissime dritte sulla scrittura. Gli spunti di riflessione che mi ha lasciato sono stati dei suggerimenti preziosi che ho messo in pratica per la scrittura del mio disco. Ho conosciuto tanti altri professionisti e ognuno di loro mi ha trasmesso qualcosa, non c’è stato ancora nessuno che abbia deluso le mie aspettative.
Durante la quarantena non ti sei fermato un attimo: hai appoggiato iniziative importanti, come 100 palchi aperti per Emergency. Supportare una realtà così importante come Emergency mi ha reso davvero felice, l’ho trovata una cosa bella e giusta da fare. E poi è stato bello sentirsi parte di un grande abbraccio collettivo, perché hanno aderito tantissimi artisti napoletani e campani, tutti uniti con Emergency, una realtà no profit che si batte per il diritto alla vita e alla salute di tutti gli esseri umani.
Hai progetti per l’immediato futuro? Con la mia etichetta discografica abbiamo lavorato alle riprese del videoclip Superpoteri e dopo l’estate uscirà questo nuovo singolo accompagnato dal videoclip. Per me si tratta di un lavoro davvero significativo, perché penso che questa canzone sia una delle più belle che abbia scritto in Anatomia di una colluttazione. E poi è stato girato in viaggio, in due terre che amo tantissimo, l’Abruzzo e la Sicilia. Emanuele Torre, il videomaker che l’ha curato, ha fatto davvero un ottimo lavoro. Non vedo l’ora di condividerlo con tutti!
Qual è il tuo sogno più grande da realizzare? Questa è una domanda difficilissima ma ti risponderò come disse Beyoncé: “My dream is to be happy!” Mi piacerebbe tantissimo poter suonare a contatto diretto con la natura, perché vivendo in città questo mi manca. E poi viaggiare: se riuscissi a coniugare le due cose per me sarebbe un grande viaggio. Ecco cosa sogno: un grande viaggio.
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Valentina Polinori è una giovane cantautrice romana. Ha pubblicato da poco il suo secondo album, “Trasparenti”, di cui ha scritto testi e musica. Per gli amanti di Björk, Meg ed Elisa sarà amore al primo ascolto. La voce di Valentina è dolce, sognante, e le sue parole scorrono con incisione e delicatezza.
Cliccate qui per ascoltare il suo singolo “Bosco”.
La nostra chiacchierata è fissata per le 11 in punto di un lunedì mattina molto speciale per il nostro Paese, l’Italia sta iniziando a piccoli passi la sua ripresa.
Ma ecco che i mezzi digitali, sui quali abbiamo affidato ogni momento dei passati due mesi, ci abbandonano, e dopo qualche goffo ed inefficace tentativo di lotta titanica ed achabiana con la tecnologia, finalmente l’allegra suoneria di Skype ci informa che non tutto è perduto.
Valentina ride, e nel giro di pochi attimi da una banale, e forse un po’ freddina, intervista, si passa ad una chiacchierata esplorativa, che, proprio come le sue canzoni, lascia entrare in un mondo familiare e allo stesso tempo tutto nuovo.
Come stai, Valentina?
Mah, devo dire che adesso sto piuttosto bene. Certo, sono stati dei mesi difficili, ma sono assolutamente in ripresa. Ho vissuto la quarantena da sola, quindi devo ammettere che è stato un po’ impegnativo. Adesso però sto rivedendo tutte le persone a me vicine ,quindi sono molto contenta.
Iniziamo a parlare di musica. Ci sono per caso degli artisti italiani, o anche internazionali, a cui ti ispiri?
Non parlerei tanto di ispirazione. Ascolto moltissima musica, tanti cantautori. Forse recentemente, rispetto al passato, ascolto un po’ meno musica italiana, ma tra i miei preferiti sicuramente ci sono i cantautori classici italiani, come Dalla, o Samuele Bersani. Negli ultimi tempi anche Colapesce, e cantautori indie, come Gazelle. Non so se li definirei punti di riferimento, ma tutti gli artisti che sento sono parte del mio mondo.
Quindi anche i tuoi gusti musicali spaziano molto.
Assolutamente. Dall’hip-hop al jazz, al rock!
Riusciresti a scegliere un tuo artista preferito?
Oddio! In passato forse ti avrei detto i Daughter, loro mi piacciono molto. Però oggi mi rendo conto che ascolto e amo tanti di quei musicisti che una risposta netta sarebbe difficile!
Adesso parliamo di te come artista. Come nasce un tuo pezzo?
Non c’è un vero procedimento costante. Ci sono delle idee che possono nascere in qualsiasi momento, ovunque mi trovo. E appena posso, ecco che provo a scrivere accordi e melodia. Tendenzialmente, se scrivo prima il testo, forse il processo è più veloce, perché ho già un’idea in mente. Ma è diverso per ogni volta.
Dipende tanto anche dal periodo, in effetti. A volte mi metto lì e scrivo, e altre volte no, è molto variabile.
Com’è stato, invece, il tuo percorso nel mondo della musica?
Ho iniziato da piccolina a studiare pianoforte, e ho fatto un anno di conservatorio da adolescente. Poi, però, ho lasciato e ho iniziato a studiare la chitarra da autodidatta, intorno ai vent’anni. Da lì, ho iniziato a scrivere i pezzi, gradualmente. È iniziato tutto davvero quando mi sono approcciata alla chitarra.
Parliamo del tuo futuro. C’è già qualcosa in programma?
Sì! Sto scrivendo delle cose nuove, e spero di far uscire qualcosa di molto presto a dire il vero. Non so ancora se un disco o qualcosa di singolo. Cerco sempre di tenermi attiva, non mi sono mai fermata. Vi aggiornerò!
La vita tra mondo della musica e mondo esterno alla musica può portare ad esperienze molto diverse. Qual è il ricordo più bello della tua vita tra palco e accademie?
Quando ero all’università ero un po’ meno attiva a livello musicale. Quello che poi è andato a combaciare con la musica per davvero è stato il mio lavoro. A volte è difficile mettere la stessa energia in entrambe le cose, ma devo anche dire che è una gran bella soddisfazione quando alla fine della giornata lavorativa riesco a suonare e dare il massimo. È una sensazione bellissima, quindi penso proprio sia questo.
Hai vissuto in diverse città d’Europa. Ce n’è forse una in cui sei riuscita a sentirti più a tuo agio come artista? Più compresa, musicalmente parlando?
In realtà, ti dirò, Roma offre un ambiente molto ricco. E quindi sì, direi Roma. Scrivendo in italiano è anche più semplice trovare qualcuno che possa comprenderti, non solo per un ascolto superficiale. Ma devo dire che due anni fa mi è capitato di suonare a Vienna, una mia amica mi ha invitato lì per partecipare ad un evento. Ed è stato molto bello, perché spiegavo in inglese di cosa avrebbero parlato i pezzi che poi ho cantato in italiano, e c’è stato un ascolto molto attento, molto particolare. Incredibilmente, fuori dall’Italia, Vienna!
Di tutto il tuo percorso, c’è qualcosa che rifaresti?
Tutto. Non c’è qualcosa di cui mi pento, anzi, a dire il vero forse faccio anche troppo! In fondo, tutte le scelte che ho fatto le ho fatte perché spinta dal desiderio di arrivare ai miei obiettivi. Quindi non ho rimorsi per aver rinunciato a qualcosa, né rimpianti per cose che non rifarei. Tutto mi ha portato là dove volevo andare.
Qual è il sogno nel cassetto di Valentina Polinori-cantautrice?
Continuare a suonare e scrivere il più possibile. Voglio farlo per sempre. Certo, in generale vorrei che la passione restasse viva. Se quella rimane, voglio continuare a suonare.
L’intervista è finita, ma Valentina ha detto una frase che mi ha molto colpito. È il bello degli scambi tra la gente, non sai mai dove possono portarti. Mi prendo un momento, e così, fuori programma, parliamo di passione per la musica e vita reale.
Il concetto di cui hai parlato adesso è molto interessante. “Vorrei che la passione restasse viva”. Per quanto sembri impossibile, infatti, non sempre musica e passione vanno di pari passo. E non tutti suonano per passione. In fondo, è la conseguenza naturale delle cose per chi ha scelto di farne un lavoro diverso da quello di scrittura e produzione di musica inedita.
Beh, lavorare in un altro ambito forse ti permette di mantenere nella musica un’attitudine particolare. Che sia il più possibile positiva. Non voglio crearmi aspettative ingombranti, ma voglio fare quello che mi vadi fare. La mia musica è tutta passione, lo faccio per quella. È difficile, ma è il motore fondamentale.
La nostra chiacchierata si conclude sorridendo. È stata una conversazione di quelle che alla fine ti lasciano serenità, perché ci si sente arricchiti. Così io e Valentina ci salutiamo, ritornando al nostro lunedì nelle rispettive città, ringraziando i mezzi digitali per non averci ostacolate dopo i singhiozzi iniziali, e soprattutto aspettando di ascoltare le novità che ci ha promesso, in attesa di poterci incontrare, questa volta di persona, per la prossima intervista.
(Tutte le foto sono di Davide Fracassi)
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Rising Sounds è la rubrica di SLQS dedicata agli artisti emergenti!
Yato è il fiorentino Stefano Mazzei, musicista e cantante solista della scena rock/pop e elettronica. Educatore per bambini e collaboratore di iniziative editoriali, legate al mondo della letteratura, Stefano non ama definirsi un cantante “preciso”. Eclettico e travolgente, è sempre alla ricerca di una dimensione di libertà che possa tradursi in musica. Ci ha raccontato di sé, dei suoi progetti attuali e delle sue ambizioni future.
Quando hai deciso che avresti fatto il cantante?Non sono mai stato un cantante “preciso” e ti spiego perché. Ho iniziato a studiare canto lirico, ma durante quei 3 anni facevo anche crossover e hard rock. Avendo altri interessi sono sempre stato un po’ stralunato, mi piaceva fare cose improbabili con la voce. Diciamo che la consapevolezza del “me” cantante l’ho percepita nel corso degli anni, nel momento in cui ho capito che potevo utilizzare la mia voce come uno strumento.
Com’è nata l’idea di chiamarti Yato? All’ inizio avevo un’ idea ben precisa del mio progetto. La mia musica unisce sonorità pop e rock, mescolate alle atmosfere elettroniche e al dubstep. Ho scelto la Y come versione stilizzata della I nella parola “iato” perché rappresenta visivamente, con le sue diramazioni, la non appartenenza a un nucleo vocale specifico. Lo iato viola l’idea metrica e la mia musica e le mie canzoni sono forme di iato che sentiamo e viviamo ogni giorno.
Hai detto che all’inizio avevi un’idea ben precisa su Yato. E adesso?L’enigma sul mio nome me lo sto portando dietro da un po’ di tempo! Alcuni produttori artistici ed esecutivi mi hanno fatto notare che il mio nome d’arte corrisponde anche a quello di un personaggio del manga Noragami. Questo ovviamente mi costa una penalizzazione in termini di risonanza sul web, quindi ho deciso che è arrivato il momento di cambiarlo. Mail cambio si riverserà anche sulla produzione artistica: manterrò alcuni brani della precedente produzione, che avranno però un diverso arrangiamento e che sarà il frutto di questo periodo di transizione molto strano.
Ti riferisci a questo periodo di quarantena?Esattamente. Mi trovo in un periodo di standby dove prevale la voglia di suonare, ma le spinte interne, purtroppo, non trovano appiglio con la realtà che viviamo. E’ un periodo molto sofferente.
“La musica è la dimensione che mi caratterizza da quando sono nato, una dimensione di ricerca e di libertà che mi porta spesso in direzioni inaspettate, verso cose non per forza viziate dal mercato”
Come mai hai scelto l’elettronica e quali sono i tuoi artisti di riferimento?In realtà è stata l’elettronica che ha scelto me. Sin da quando ero ragazzino sentivo di subirne il fascino per la sua fusionalità di suoni e di generi. Per quanto riguarda invece gli artisti di riferimento, mi sento attraversato da progetti musicali più pop ma in cui si percepisce un lavoro di incontro fra sonorità distanti fra loro, come gli Arcade Fire. Anche in Italia negli anni 90 e inizi del 2000 abbiamo avuto un boom di gruppi che si esprimevano attraverso l’elettronica, come i Subsonica, i Bluvertigo e i 99 Posse. Purtroppo questo scenario musicale è rimasto lì, mentre nel frattempo hanno preso piede generi più legati all’ hip-hop. Ma su di me quell’impronta è rimasta forte.
Come nasce un tuo pezzo? Scrivi prima la musica o le parole? Non mi sento un autore tout court, di solito parto da qualcosa che mi colpisce, che sia una melodia o un giro di chitarra o ancora, da semplici note a casosulle quali sento la musica che ho in testa.
Secondo te, quali sono le difficoltà legate al portare avanti un progetto musicale in Italia? Personalmente io ho incontrato difficoltà legate a una produzione strutturata. Ho lavorato anche con realtà diverse dalla Toscana, nel nord Italia e a Roma. Non avendo un produttore dietro sono riuscito comunque a portare la mia musica in giro per varie città italiane, come produttore indipendente, riuscendo ad avere un seguito. Purtroppo molte date sono state cancellate a causa del lockdown.
Oltre alle difficoltà legate alla produzione, quali sono le soddisfazioni che hai ottenuto finora?Le soddisfazioni arrivano sempre dal pubblico: quando suono davanti a perfetti sconosciuti e vedo che apprezzano i miei live o investono su di me, mi fa sempre un grande piacere.Suonare sul palco durante i festival o fare da spalla a gruppi famosi è sempre gratificante.
La tua canzone “Post” è stata scelta e mandata in onda su Firenze Tv. Di quale iniziativa si tratta? Post (guarda il videoclip)è una canzone di recente produzione che fa parte di un mini album di 8 canzoni. La versione mandata in onda da Firenze Tv è un nuovo arrangiamento di quel brano. Firenze Tv, invece, è una piattaforma digitale della Fondazione Teatro della Toscana, alla quale collaborano artisti del mondo del teatro, della musica e della letteratura (Stefano Accorsi, Pierfrancesco Favino, Vittoria Puccini, Giorgio Panariello, Edoardo Leo e altri). L’idea di questo canale è nata come rimedio alla necessaria chiusura delle sale a salvaguardia della salute pubblica. Sono stato coinvolto dal maestro Claudio Fabi (presidente e direttore artistico del Campus della Musica) -n.d.r. Claudio Fabi è il padre del cantautore Niccolò- con il quale sono in collaborazione per alcuni contenuti. La canzone gli è piaciuta molto e ha deciso di mandarla in onda.
Prima di salutarci, raccontaci dei tuoi progetti per il futuro. A cosa stai lavorando?Ho deciso di settare una parte della produzione legata al progetto Yato. I cambiamenti non riguarderanno solo il mio nuovo nome, ma ho proprio intenzione di ri-arrangiare i vecchi brani e suonarli con nuovi arrangiamenti a cui sto lavorando già da ora. Spero anche che la collaborazione con il Campus della Musica possa avere ulteriori sviluppi, ci credo fortemente e spero sia una buona parte per il futuro. Ma non solo: sto cercando di convincere il mio editore ad aprire una radio, dedicata a programmi e contenuti prettamente musicali. La radio non è solo una playlist di brani e in questo senso ho scritto dei format autoriali e ho registrato delle cose che mi piacerebbe trasformare in un programma vero e proprio.
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India e Josef, cantante lei, chitarrista lui, si incontrano da studenti di conservatorio. Un giorno, così, per gioco, suonano insieme e da quel momento si accende la scintilla che porterà alla fondazione di Emisferi, duo campano dallo stile caleidoscopico a tinte sperimentali.
Noi di Smells Like Queen Spirit li abbiamo intervistati, ed ecco a voi cosa ci siamo detti durante la nostra chiacchierata, rigorosamente avvenuta online (restate a casa!).
India e Josef, prima di tutto, vi va di raccontarci come mai avete scelto “Emisferi” come nome del vostro duo?
Abbiamo scelto la parola “emisferi” proprio per il suo significato. Ogni emisfero è una metà, e noi ci riconosciamo molto in questa definizione. Ci rappresenta appieno come poli opposti ma compatibili, due facce della stessa medaglia. Due mondi diversi nella stessa realtà.
Com’è nato il vostro progetto, e come avete scelto su quale genere concentrarvi?
A dire la verità, adesso siamo in una fase di cambiamento per quanto riguarda il genere. Non riusciamo a trovare una definizione esatta. Il nostro primo EP, Emisferi, aveva sicuramente un’impronta neo-soul, chill, ma adesso stiamo lavorando ad un secondo EP, ritrovandoci in una direzione decisamente più mirata al pop-contemporaneo.
Il nostro progetto è nato per puro caso. (India) Io volevo soprattutto scrivere dei brani miei e Josef, amante della composizione musicale, si è subito interessato all’idea. Non avevamo in mente in un vero obiettivo all’inizio, ma poi qualcosa è cambiato.
(Josef) Ci siamo conosciuti in conservatorio, e all’inizio non ci conoscevamo nemmeno così bene, ovviamente. Poi, col tempo, abbiamo capito di avere moltissimo in comune ed entrambi abbiamo pensato di poter esprimere attraverso la nostra musica qualcosa del nostro mondo interiore. È nato tutto un po’ per gioco, ma poi ci siamo ritrovati a credere nel nostro progetto. Anche grazie alle persone che ci hanno circondato e supportato, per dirne una, Pasquale Cristiano, che collabora con noi e ci dà una grandissima mano.
I vostri testi sono tutti scritti in italiano. Questa scelta è stata dettata da qualche ragione in particolare?
(India) Io amo scrivere testi in italiano, per una questione di naturalezza. In alcuni progetti del passato ho scritto dei testi in inglese, e col tempo mi sono resa conto che attraverso la mia lingua madre riesco a comunicare molto più facilmente. L’italiano è più viscerale, mi permette di sentirmi più a mio agio. Ho iniziato prima con piccole poesie, che sono diventate piccoli testi, ho fatto dei lavori di scrematura, concentrandomi sempre più ed esercitandomi su alcune basi. Josef è sempre stato d’accordo con questa scelta.
Parliamo dei vostri brani. Ci raccontate come nasce un vostro pezzo?
(Josef) Siamo stati fortunati, abbiamo avuto fin dal primo momento una grande intesa. A volte lei mi manda delle linee scritte al piano, o delle idee cantare, e mi dice “Facci sopra qualcosa”. Altre volte, invece, le idee partono da me. Siamo complementari in questo senso, coesi. Entrambi siamo curiosi, abbiamo voglia di sperimentare, e avendo esperienze di vita in comune che ci hanno unito, dare vita ai brani esprimendo quello che entrambi vogliamo diventa più facile.
Tra di noi è tutto molto spontaneo, non c’è rivalità, e questo facilita la nostra scrittura, nessuno si sente in soggezione e così è più facile anche lavorare alle idee più scarne.
Non bisognerebbe mai avere preconcetti o pregiudizi, ma mantenere una visione della musica a 360°, complessiva, totale che ti aiuta a trarre il meglio da tutto.
Quanto è difficile, secondo voi, portare avanti un progetto emergente nell’attuale mercato musicale italiano?
È una domanda tosta. Diciamo che molto dipende anche dall’accessibilità di quello che si suona.
E per quanto riguarda il vostro progetto, pensate sia accessibile ad un pubblico più ampio?
Forse la nuova direzione che abbiamo preso rientra in questa dimensione. Ad essere sinceri, in un primo momento, i nostri brani potevano sembrare più “di nicchia”, se così vogliamo dire. Ora, però, sperimentando il passato abbiamo riscritto il presente. Siamo riusciti a rivisitare noi stessi e la nostra musica, mettendoci dentro tutta la nostra realtà.
Entrambi avete anche dei progetti singoli, indipendenti da Emisferi. Riuscite a bilanciare l’attenzione dedicata alle varie produzioni?
(Entrambi sorridono) Emisferi per ora è la nostra priorità, ma non dimentichiamo il resto. Bilanciare le cose è possibile, anche quando queste non riguardano strettamente la musica, come la dizione o il teatro, tuttavia riusciamo a gestire bene tutto, soprattutto quando si trovano dei collegamenti tra le diverse attività.
Adesso vi chiediamo una cosa un po’ diversa, per salutarci. Ci dite i nomi di tre artisti che vi hanno ispirato per questo vostro progetto?
(Josef) Venerus, è uno dei migliori in Italia nel suo genere. Sicuramente anche Tom Misch. E Calvin Harris, per quanto riguarda la sfera del pop-elettronico.
(India) Erykah Badu, che mi ha fatto appassionare alla musica in generale, e al soul in particolare. Per quanto riguarda la scrittura, Levante. E Dua Lipa, che seguo con molto interesse anche per l’approccio con il mondo dei social.